Moria Camp, il più grande campo profughi che l’Europa non vuol vedere.
Lesbos, estremo confine orientale delle isole greche, di fronte alla costa turca.
Nessuno è mai tornato dall’inferno o dal purgatorio per raccontare com’è laggiù, abbiamo sempre fatto delle supposizioni, e queste assomigliano molto a questo luogo di sofferenza e senza futuro.
L’isola di Lesbo, dopo il 2016, anno di accordo tra Bruxelles e Ankara, da porta d’ingresso in Europa, si è trasformata in gabbia, dove i richiedenti asilo rimangono bloccati per anni, in un’attesa senza fine.
Il campo di Moira, un’ex base militare greca, allestito per 3200 profughi, oggi sono 13000.
Le condizioni inumane segnano indelebilmente chi è passato per questo campo. Un volontario, sbarcato qui quattro anni prima, è tornato dalla Germania per dare il suo aiuto, “chi più di me può conoscere la sofferenza di questo luogo”.
Interminabili code per i pasti, ambulatori sovraffollati, servizi igienici insufficienti e spazi vitali ristrettissimi sono spesso la scintilla che accende la violenza tra le diverse etnie che vivono nel campo e scontri con la polizia.
Raccontare questo luogo potrebbe essere un esercizio troppo ovvio, scontato. Siamo abituati, purtroppo, a immagini che descrivono le condizioni dei campi profughi, sparsi un po’ ovunque in questo inizio secolo. Indugiare con la macchina fotografica sul viso di chi scappa da una guerra, di chi è in difficolta, mi ha sempre messo a disagio, forse per questo ho seguito pochi conflitti.
Ma quello che sta accadendo a poche miglia dalle spiagge greche, affollate di bagnanti di tutta Europa è l’angolo buio della coscienza europea e va raccontato. L’ho fatto in maniera diversa, non ho ritratto visi emaciati e sguardi persi nel vuoto, bambini mal vestiti che fissano la camera come rapiti dall’alieno che sta dietro la macchina fotografica.
Ho rivolto l’obiettivo altrove, nella discarica di giubbotti salvagente indossati per arrivare sull’isola. Sono una montagna, impossibile dire quanti, qualcuno ha detto cinquantamila, chi addirittura parla di centomila. Sono tanti, troppi e forse questo è l’unico dato per capire la dimensione di questa tragedia.
Scarpe, bottiglie, vestiti, borse, biberon, e anche una protesi, confusi in un unico ammasso, in un’unica montagna di plastica informe. Tutti indizi di un’umanità in fuga, in corsa verso un destino incerto che si lascia dietro quello che non serve più.