Che fine hanno fatto i 18 pescatori di Mazzara del Vallo?
Natale in Libia non è il titolo del cinepanettone di quest’anno ma quello che potrebbe accadere ai pescatori sequestrati in Libia e ancora nelle celle del regime di Haftar. Se, paradossalmente, si potesse scegliere quando imbattersi in una disgrazia, i 18 pescatori siciliani, sequestrati dal generale Haftar, hanno scelto proprio il momento peggiore. Certo che non esiste il momento migliore per farsi sequestrare ma il destino a volte rende ancora più complicato quello che è già complicato in partenza. Da oltre tre mesi, 90 lunghi giorni e altrettante interminabili notti, le famiglie dei 18 marittimi di Mazara del Vallo attendono di poter riabbracciare i proprio cari, di riaverli a casa, di tornare alla normalità. Da giorni una tenda staziona davanti a Montecitorio, i famigliari di alcuni di loro, con la loro silenziosa presenza, ricordano al governo la loro tragedia e che andranno via solo quando potranno riabbracciare i loro uomini.
La storia attorno al loro sequestro sta assumendo i contorni di una faccenda molto più ingarbugliata e non di facile lettura per un Paese ma, soprattutto, per un Governo distratto da problemi più pressanti ed evidentemente meno coinvolgenti di quelli che riguardano le famiglie di 18 lavoratori, sequestrati in acque internazionali assieme alle loro imbarcazioni. La pandemia, con i suoi DPCM, i litigi su come spendere il fiume di denaro del Recovey Fund, i problemi ideologici sul Mes, un ministro degli Esteri più intendo a gestire il doppio mandato e a fronteggiare i mal di pancia di un Movimento che si sta sciogliendo al pallido sole dell’Estate di San Martino, non lasciano ben sperare sui tempi del ritorno a casa dei 18 marinai.
Per dirla tutta, neanche tra i banchi dell’opposizione pare esserci molta attenzione sulla sorte dei malcapitati pescatori di Mazara.
Giorgia Meloni, la più attiva quando c’è da denunciare inadempienze del governo o molto sollecita nel dispensare consigli su come bloccare gli sbarchi, con un massiccio blocco navale, in queste ore è molto occupata a denunciare l’uso improprio della scorta del premier che, colpevolmente, secondo l’opposizione, è intervenuta a proteggere la compagna del Presidente del Consiglio dall’insistenza degli inviati di Striscia. La Meloni, in un video direttamente dall’aula di Montecitorio, denuncia una questione di Stato di diritto. Per molto meno la scorta di Salvini impedì il lavoro di altri giornalisti durante le esibizioni al Papete dell’ex ministro degli Interni. Sul diritto di quelle 18 famiglie a riabbracciare i loro congiunti non una parola. Molto fredda anche la partecipazione dei social e delle Ong che in questi anni si sono mobilitati per i diritti degli immigrati. In fondo è lo stesso mare e lo stesso comune nemico.
In queste ultime ore un evento, non collegato direttamente alla faccenda dei marinai trattenuti in Libia ma riconducibile ai delicati rapporti di forza e di potere nell’area, ci dà la misura di come il nostro Paese spesso soffra in politica estera un senso di minus habens. Ricordate il caso dei Marò e del disastro della nostra politica estera che ci coprì di ridicolo?
Tornando all’evento di queste ore, l’Egitto ha annunciato che non ci sono elementi sufficienti per continuare le indagini per individuare gli assassini di Giulio Reggeni e, pertanto, non collaborerà con la procura romana. Un bel ceffone per la nostra diplomazia. L’Egitto è uno dei fiancheggiatori dell’ex generale di Gheddafi, Khalifa Haftar, oltre a una altra mezza dozzina di paesi e, fra questi, pensate un po’, ci sono anche i francesi. I cugini d’oltralpe non hanno mai fatto mistero della voglia di scalzarci dalla Libia, i contratti dell’Eni sono nel mirino dei francesi da sempre, e la spallata al regime di Gheddafi non era certo un sostegno alla Primavera araba ma una veloce scorciatoia per mettere le mani sul petrolio libico.
La diplomazia italiana, da sempre e forse giustamente, ha preferito pagare per il rilascio dei suoi cittadini. In queste settimane i funzionari della Farnesina invitano alla cautela e al silenzio, per non compromettere le trattative. Chiedere il silenzio per non compromettere le trattative potrebbe avere senso quando ancora non si conosce l’identità dei rapitori, dove tengono i prigionieri e se sono ancora in vita. Ma qui conosciamo nomi, cognomi e indirizzo dei carcerieri e dove sono trattenuti i nostri connazionali, illegalmente, da un governo non riconosciuto da molte delle istituzioni internazionali. Dopo una prima richiesta dei libici, fatta circolare informalmente, circa uno scambio dei marinai siciliani con quattro scafisti libici, arrestati in Sicilia cinque anni fa, condannati a 30 anni ciascuno in primo e in secondo grado a Catania per la morte in mare di 49 migranti nel 2015, il generale Haftar deve essersi reso conto che un governo sovrano e legittimo non fa ostaggi da scambiare. Ecco allora il cambio di strategia, incriminare i pescatori per traffico di stupefacenti.
Petrolio, gamberi rossi e diplomazia è l’intrigata sceneggiatura che vede potagonisti una dozzina di paesi coinvolti in una grande partita di Risiko, dove si giocano spregiudicati assetti strategici ed economici di un enorme area che va dalla Tunisia alle coste di Grecia e Turchia, e gli interessi degli italiani sono in balia della sorte e di qualche oscuro consigliere diplomatico.
Al generale Haftar la sorte dei 18 marinai della Medinea e della Antartide deve essergli sembrata un ottimo poker d’assi, senza mettere in conto che qualcuno potrebbe avere in mano una scala reale.
Haftar sa che una mossa sbagliata potrebbe procurargli le ire di Russia ed Egitto e che potrebbero scaricarlo da un momento all’altro, mentre la Francia potrebbe cercare di ingraziarsi i cugini italiani dopo anni di contrapposizione in Libia ma per il resto c’è il fondato rischio che i marinai di Mazzara del Vallo rischiano di passare il Natale forzatamente distanziati dalle loro famiglie al suono dei muezzin del generale Haftar.