Il garante del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo esprime il suo sostegno al governo di Cuba e alla rivoluzione castrista pubblicando sul suo blog una lettera pro Havana di Frei Betto, teologo e politico brasiliano, in cui difende la rivoluzione castrista che assicura tre fondamentali diritti umani: cibo, salute e istruzione. Vi state chiedendo che ne è della libertà, del diritto fondamentale, il primo e indispensabile diritto senza il quale gli altri sono solo concessioni? Non è contemplato e non ne fa mistero Frei Betto, così come tanti, tantissimi intellettuali e importanti personaggi della cultura della seconda metà del Ventesimo secolo.
Ma per comprendere la vicenda, facciamo un passo indietro.
Per noi baby boomer, cresciuti durante gli anni di piombo, con il poster di Che Guevara in camera e il proclama Patria o morte sulle magliette e le bandiere sventolate durante le occupazioni studentesche, il regime di Fidel Castro ha rappresentato l’isola felice del socialismo. Cuba era la realizzazione dell’eguaglianza sociale e politica, il luogo dove la dignità umana e la giustizia erano la plastica testimonianza di un’alternativa al modello delle sgangherate democrazie occidentali, basate sul consumismo, la crescita del Pil e le classi sociali. E ancora prima di tutto ciò c’era l’innamoramento per un ideale di rivoluzione romantica, incarnata da un personaggio da romanzo, bello come un divo di Hollywood e capace di parlare alle masse con parole semplici e dirette: Ernesto Guevara, il rivoluzionario, guerrigliero, scrittore, politico e medico argentino, divenuto un’icona per milioni di studenti e aspiranti rivoluzionari.
Ero nella pancia di mia madre durante la fallita invasione della Baia dei Porci, tentata da uno sparuto gruppo di esuli cubani, finanziati dalla CIA, e sicuramente non camminavo ancora quando Nikita Krusciov, per reazione, inviò una serie di missili che dovevano essere installati sull’isola caraibica. I missili non arrivarono mai ma il mondo arrivò a un tanto così dall’olocausto nucleare. Non sapremo mai se Kennedy sarebbe stato davvero disposto ad affondare le navi russe arrivate con il carico nucleare da installare in quello che gli americani consideravano il cortile di casa e nel dubbio, forse, anche il presidente sovietico Krusciov preferì desistere. Da allora migliaia di libri, centinai di convegni, interminabili dibattiti – complice la guerra fredda e la divisione del mondo in blocchi contrapposti – ci hanno instillato l’immagine di una società cubana felice della loro dignitosa povertà, di un popolo indomito che non si è piegato al modello consumistico e libertario americano che aveva trasformato l’isola cubana, governata da Batista, in un grade Casinò e in un esotico bordello a cielo aperto.
Come dicevo, non ero ancora nato quando tutto ciò ha avuto inizio, ed ero scolaretto alle elementari quando il mito vivente, passato alla storia come il simbolo delle lotte per la libertà e la giustizia sociale, Ernesto Che Guevara, stanco, affamato e stremato, finiva i suoi giorni, tradito dai contadini che era venuto a liberare e nel tentativo di esportare la rivoluzione, in una sperduta località tra le montagne boliviane.
In milioni, studenti e rivoluzionari sognatori, abbiamo usato la nostra libertà per manifestare e sostenere un regime che non contemplava proprio la libertà tra i suoi diritti fondamentali e per decenni ci siamo recati sull’isola per manifestare il nostro appoggio alla causa castrista assieme all’apprezzamento per il suo rum, i suoi sigari e le sue donne, divenuti i maggiori prodotti di esportazione.
Sono stato alcune volte a Cuba, per lavoro e per turismo. L’isola felice del socialismo e delle abolizioni delle classi sociali tutto mi è sembrato che felice. La curiosità per come vivevamo noi europei, per i nostri prodotti, per la libertà che avevamo di andare dove volevamo, per tanti cubani erano motivi di curiose domande e talvolta aspri dibattiti su quanto effettivamente eravamo liberi. In alcuni casi avevano ragione: un operaio o un contadino europeo difficilmente poteva permettersi di viaggiare liberamente, le condizioni economiche di milioni di europei, con salari appena sufficienti alla sopravvivenza, per gli attivisti cubani erano la conferma che vivevamo in uno stato d’immaginaria libertà. In fondo loro vivevano meglio: non aspiravano a un’economia di mercato, capace solo di produrre schiavi del consumismo, loro avevano la musica, l’allegria, l’idea di una rivoluzione che li aveva liberati e un regime che assicurava una casa, cibo e istruzione per tutti. Prima di ripartire, spesso ci chiedevano di barattare i nostri jeans o le nostre logore scarpe da ginnastica con qualche bottiglia di pessimo rum o con una scatola di sigari, puro habano, trafugati dalle fabbriche di stato. Lasciando l’isola, ogni volta, mi chiedevo da che parte stava la ragione: erano più liberi i cubani o noi europei? Se la felicità è fatta anche di un paio di logore scarpe da ginnastica e un vecchio jeans, in fondo non doveva essere così terribile vivere a Cuba, o no?
Grillo, dall’altra villa in Sardegna perché quella di Marina di Bibbona l’ha messa in affitto a 12.500 Euro settimana – magari c’è qualcuno che vuole respirare l’aria dell’elevato – esprime solidarietà al regime cubano. Una volta tanto Grillo è coerente. Il leader massimo pentastellato non fa mistero delle simpatie per il regime cinese, di cui, probabilmente, apprezza il ruolo e la figura di Xi Jinping, che incarna tutto il potere e la forza della Cina: è capo politico e militare e padre padrone del paese più popoloso al mondo, e per Grillo che si sente anche lui un po’ padre, un po’ padrone e tanto leader, il modello cinese o quello castrista sembrano interessarlo particolarmente.
Beppe Grillo è il penultimo rivoluzionario cubano perché ci sarà sempre qualcuno, andando in vacanza sull’isola, che s’innamorerà della rivoluzione cubana e dei suoi simboli e i più fortunati potranno ballare in compagnia la Salsa cubana sorseggiando un’elegante Margarita o, più prosaicamente, un Cuba Libre, mentre i meno fortunati potranno accontentarsi dei libri del Che.
Probabilmente moriremo cinesi, come ha scritto Rampini, ma cino-grillino è un’onta che non so se potremo perdonarci.