Il mio G8 di vent’anni fa

/
7 mins read

Non ho mai raccontato la mia esperienza al G8 di Genova di vent’anni fa, non avrebbe aggiunto o rivelato nulla a quello che abbia visto e letto sui quei terribili giorni. Anche una buona dose di disagio nel ricordare quelle poche ore trascorse a Genova mi ha fatto archiviare quell’esperienza. 

Come fotogiornalista raramente ho scelto di seguire quelle che in gergo si chiamano Hot News, gli eventi di una certa importanza che sono seguite dalle più importanti agenzie di stampa del mondo intero, ed è abbastanza ovvio che, come freelance, non posso competere sulla velocità. Infatti, la mia scelta cadde su un aspetto marginale, meno impattante ma certamente importante: avrei raccontato il G8 da un altro punto di vista, della gente comune, degli operai e pensionati che vivevano nelle zone rosse. Il settimanale tedesco al quale avevo proposto il servizio aveva dato luce verde. Ricevute alcune dritte e chiarita qualche richiesta, decisi di andare a Genova in treno. Da Milano erano diversi i gruppi di partecipanti e attivisti – chiamiamoli così – che riempivano i vagoni. L’aria che si respirava era quella di prima della battaglia, come quando Cesare, esortando l’esercito alla battaglia secondo l’uso militare, Cesare ricordò i propri meriti acquisiti in ogni tempo verso di loro e soprattutto, chiamando loro stessi a testimoni… ma loro malgrado, tanti finirono per essere protagonisti e molti anche vittime della violenza che in quelle ore si scatenò in tutta la città. La tentazione era di cominciare a fotografare e raccogliere qualche storia a bordo del treno ma poi, visto il clima che si respirava, ricordai a me stesso che non era quella la storia che stavo cercando di raccontare.

Alla radio le notizie riferivano di tafferugli e scontri isolati qua e la per la città ma nulla che lasciasse presagire quello che sarebbe accaduto da lì a qualche ora. Avevo appuntamento con Ettore, un pensionato della Breda che viveva a due passi da Piazza Alimonda, dove cadde ferito a morte Carlo Giuliani, il manifestante che stava tentando di scagliare un estintore su un carabiniere, rimasto intrappolato sulla jeep. Feci alcune foto di Ettore e di alcuni suoi vicini mentre i rumori di scontri e vetrine rotte arrivavano dalla piazza. Avevo finito di fotografare in quella zona e dovevo recarmi poco lontano, in piazza delle Americhe, proprio a ridosso della zona chiusa, cuore del G8. Gli scontri erano violenti e a un certo punto scattò la caccia ai fotografi e ai cineoperatori che tentavano di mettersi al riparo o stavano vicino alle forze dell’ordine. Molti colleghi furono rapinati dalle attrezzature, alcuni riuscirono a difendersi con non poche botte e danni alle attrezzature. Io viaggiavo leggero, avevo una borsa di tela militare, nulla che facesse pensare a una borsa fotografica. Al collo avevo una Leica che tenevo seminascosta da una sciarpa, la Nikon digitale con cui avevo fatto le foto a Ettore e ai suoi vicini era nella borsa. Andavo spedito cercando di evitare di incrociare gruppi di facinorosi che prima si esaltavano davanti ai fotografi e cineoperatori che li riprendevano a distanza, dopo, per i colleghi che si avvicinavo troppo, botte e rapina erano assicurate.  Improvvisamente tre ragazzi, tutti in nero, due parlavano italiano e l’altro inglese, con un chiaro accento tedesco, mi circondarono. Vogliono la macchina che ho al collo e la borsa. Comincia una concitata trattativa, dico loro che non ero lì per fotografare gli scontri ma non sentono ragione. A quel punto chiedo loro se sono manifestanti per una causa o rapinatori? Perché se sono rapinatori, dico loro, faccio prima a consegnargli il portafogli. Un momento d’impasse, si guardano, non sanno cosa fare. Il tedesco urla camera, camera, a quel punto dico agli italiani “allora siete rapinatori”, uno dei due italiani mi dice che sono combattenti contro il sistema, a quel punto un autoblindo della Polizia ci passa accanto, e nel timore di essere loro l’obbiettivo dell’autoblindo, si allontano correndo. Poco dopo arrivò la notizia dell’uccisione di Carlo Giuliani. Non avevo più voglia di fare quel servizio, sapevo che fino a quel momento mi era andata bene, non sapevo come avrei potuto reagire a un altro tentativo di rapina, perché di rapina si trattava così come le tante che subirono molti colleghi. Tornai a Milano, chiamai il giornale e dissi loro che non avevo fatto il servizio, del resto, con tutto quello che era accaduto non sarebbe mancato loro cosa mettere in pagina. Le storie e le immagini di quelle ore fecero il giro del mondo, i fatti della Diaz, di Piazza Alimonda, vent’anni dopo continuano ad avere narrazioni diverse, di parte, senza un briciolo di obbiettività.

In queste ore si possono leggere molti commenti e ricostruzioni su quei fatti, in televisione un documentario tenta una ricostruzione, in tanti illustri commentatori raccontano le loro versione, in molti tentano di spiegare le ragioni di un fallimento. Sì perché di fallimento dobbiamo parlare. Fallì il governo nell’organizzazione del servizio di Pubblica sicurezza, fallirono le organizzazioni sindacali, fallirono le associazioni No global, i mezzi di comunicazione, le forze di Polizia, anche io, tornai senza foto, gli unici che raggiunsero il loro scopo furono i Black Bloc, un’orda di barbari arrivati da tutta Europa con un solo obbiettivo, mettere a ferro e fuoco la città. 

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Previous Story

Beppe Grillo, il penultimo rivoluzionario cubano.

Next Story

Na tazulella ‘e cafè