Il calendario Gregoriano, che usiamo dal 1582, e adottato da quasi tutti i paesi del mondo, a volte ci propone singolari coincidenze come quella di Tutti i Santi, festeggiati il primo novembre e il giorno dopo i morti, tutti i morti, come a indicare che Santi e morti hanno qualcosa in comune in più dell’essere passati a miglior vita, pure i morti per molti di noi sono santi.
La commemorazione dei defunti in questi anni di globalizzazione è diventata la festa di Halloween, la gente non affolla più i cimiteri ma i centri commerciali, le feste in maschera e i bambini le strade con “scherzetto o dolcetto”.
Per storia personale, purtroppo, ho cominciato a frequentare il cimitero in tenera età. Il Giorno dei Morti era l’occasione per rivedere parenti che non vedevi dall’anno prima e che incontravi solo lì, al cimitero. Ogni anno il rituale era sempre lo stesso, oltre ai fiori portavamo una boccetta di Sidol, la crema che serviva per pulire l’ottone delle scritte, una tanica per l’acqua e gli straccetti per lucidare il marmo, vestiti bene si andava di primo mattino. Per i bambini come me era un rituale consolidato, alleviato solo dalla gioia dei giocattoli che i morti avevano portano nella notte del primo novembre, una sorta di anticipo di Befana che in Sicilia non ha riscosso tanto successo, forse perché tanti avrebbero ricevuto solo carbone.
Da subito imparai a conoscere le storie degli occupanti delle tombe attorno a quella di mia madre.
Quella di Vitaliano Brancati era lì a due passi, e tutti, nel frettoloso via vai con enormi mazzi di fiori, si fermavano un istante. Per molti era lo scrittore marito dell’attrice Anna Proclemer, morto prematuramente, quarantasettenne; per i frequentatori delle librerie era l’autore di formidabili romanzi di successo, come Paolo il caldo, Don Giovanni in Sicilia, Il bell’Antonio. Qualche lapide più in là c’è la tomba che mi riporta in mente una storiella che avevo sentito, ha dell’incredibile e forse c’è una buona dose di fantasia dentro. Si raccontava che il figlio del morto avesse ricevuto in sogno le lamentele del padre per l’eccessiva umidità della tomba. I sogni si ripetevano e diventarono sempre più opprimenti. Il morto deplorava il fatto che stava praticamente a mollo. I parenti si decisero per far ispezionare la tomba, la trovarono completamente allagata.
E poi ci sono i ricordi dei parenti dei vicini di tomba: volti che sapevo che avrei rivisto all’appuntamento della ricorrenza. La signora Rosa aveva un cespuglio di capelli nero corvino, come i suoi abiti, sopracciglia abbondanti e un sorriso dolce e melanconico. Tutti gli anni mi salutava sempre con grande affetto, come una zia che incontri raramente. Non ricordo le date, non so da quando avesse cominciato a frequentare quell’angolo del cimitero di Catania, se lei e sua figlia, erano già lì prima di quel fine agosto del 1964.
La disperazione di una madre inconsolabile era sempre la stessa, solo le rughe ogni anno tracciavano un percorso diverso alle lacrime, rimaste immutate. Tra le tombe dei vicini, tutti raccontavano dello strazio e del dolore della signora Rosa per la perdita della giovane figlia ventenne. Nella foto con la cornice di marmo l’immagine che sembrava tratta da un giornale di moda dell’epoca: una figura snella, disegnata da una gonna bianca, scarpe con i tacchi e una voluminosa massa di capelli raccolti in cima al capo rendevano ancora più snella la silhouette di una ragazza sorridente che tiene in mano un mazzo di fiori. “Troppo giovane, troppo giovane…” era il commento di chi passava davanti. Eravamo vicini di tomba, uniti da una disgrazia comune, la morte prematura che porta via vite troppo giovani. Mia madre aveva appena trentanove anni: troppo giovane, troppo giovane.
Non vivendo più a Catania, vado al cimitero quando mi trovo in città, spesso d’estate, fuori dalle ricorrenze comandate. Il cimitero è diventato una grande città silenziosa, ancora più grande di come lo ricordavo, all’interno transita persino un piccolo bus. Molte tombe sono abbandonate, le foto sbiadite e le date incomplete. Forse perché ci vengo “fuori stagione” c’è silenzio, una quiete che di certo ti aspetti di trovare ma che sembra irreale, almeno quella è rimasta come la ricordavo.
I platani regalano qua e là grandi macchie d’ombra, le tombe, di cui avevo imparato a conoscere da bambino la storia degli occupanti, hanno l’aria di essere state dimenticate.
Con gli anni ho imparato a conoscere meglio il lavoro di Vitaliano Brancati, passando mi fermo un istante. La sua tomba mi sembra un po’ più piccola di come la ricordavo, ha l’aria impolverata.
L’ultima volta ho portato mia figlia a vedere il posto dove riposa la nonna di cui porta il nome. Era primavera, i fiori nei loculi e nei cestelli ai piedi delle tombe erano secchi, probabilmente erano del precedente 2 novembre. Il luogo mi è familiare, e di certo è l’ultimo posto dove ti aspetti di trovare dei cambiamenti. Un dettaglio mi saltò all’occhio: nella cornice di marmo scolpita come un libro che ritraeva la figlia della signora Rosa, la foto della bella ventenne con i capelli raccolti in su come una modella degli anni 60 non c’era più, o meglio, la stessa foto era stata sostituita con una stampa recente, più piccola, per fare spazio a quella della signora Rosa.
L’ultima volta che ricordo di averla incontra, molti anni dopo, non mi aveva riconosciuto. La sua grande chioma color corvino era diventata bianca, rimpicciolita dalla vita, sempre curva sulla tomba della bella figlia a lucidare ogni lettera e ogni centimetro.
Nelle foto era come me la ricordavo da bambino, con i folti capelli corvino e le sopracciglia folte, nessuna ruga. Madre e figlia erano insieme, condividevano la stessa cornice, quasi come due sorelle.