La rivolta degli ambulanti alla Fiera di Catania 

Tra repressione e disperazione, il mercato di Piazza Carlo Alberto diventa il simbolo di un'economia di sussistenza che lotta per sopravvivere.  

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 Bancarelle vuote, controlli serrati, tensione alle stelle. Gli ambulanti – italiani e stranieri – temono di perdere l’unica fonte di sostentamento che hanno. Mentre la politica parla di lusso e ricchezza, la Fiera racconta un’altra storia: quella di chi vive con pochi centesimi, senza tutele e senza futuro.

Stamane, la Fiera di Catania – la mitica “Fera ‘o luni”, cuore pulsante del commercio cittadino – appariva insolitamente silenziosa. Strano, per un mercato che di solito è un groviglio di voci, colori e odori, un brulicare continuo che invade Piazza Carlo Alberto e le viuzze circostanti. Ma oggi no. Oggi, troppi buchi vuoti tra le bancarelle, troppi spazi deserti. Un’assenza che parla.  

Solo adesso capisco davvero il senso della foto che ho scattato pochi secondi fa: una montagna di cavolfiori con sopra un cartello che recita “Tutta la giunta comunale”. Un’installazione artistica involontaria, un capolavoro di satira popolare. Perché a Catania i cavolfiori non si chiamano cavolfiori. Qui, da sempre, li chiamano bastardi. E certi messaggi non hanno bisogno di spiegazioni.

Non è il meteo a spaventare

Il meteo annuncia pioggia nel pomeriggio, ma non è il tempo a incutere timore. Al chiosco del “seltz limone e sale” – la bevanda del popolo, l’antidoto alla fatica del giorno – si scopre la verità: gli ambulanti non temono le nuvole, temono i controlli della Polizia Locale.  

I primi a svanire nel nulla sono i senegalesi, i bangla, tutto quel sottobosco di un’economia fondata sui centesimi di euro: accendini, scarpe contraffatte, cineserie, il lavoro a cottimo del globalismo. Sono i più esposti, i più facili da colpire. Ma l’atmosfera cambia quando i controlli toccano anche gli italiani. E allora l’insofferenza diventa rabbia. Perché qui non si tratta più di clandestinità, di merce taroccata o di attività border-line. Qui si tocca la tradizione, il retaggio di un’economia familiare tramandata di generazione in generazione, quella di chi, con un banco e un po’ di merce, si porta a casa la giornata.

Ma oggi nemmeno questo basta più.  

“Io sono abusivo. Lo sono sempre stato. Ho ereditato il banco da mio padre, anche lui abusivo per oltre cinquant’anni.” Lo dice senza vergogna, con la fermezza di chi non chiede privilegi, solo di poter continuare a vivere come sta facendo. Non un ladro, non un truffatore. Solo uno che lavora.  

Forse non ha ancora quarant’anni, indossa una giacca arancione ad alta visibilità con il logo della Dusty, la società che per un periodo ha gestito la pulizia della città, prima di finire travolta da crisi e appalti passati di mano. Un passato di polvere e fatica, come il suo.  

“È vero, sono uscito di galera. Ho pagato il mio debito, ho scontato la mia pena. Ora vorrei solo poter lavorare senza che nessuno venga a cacciarmi via.”  

Dov’è la politica delle promesse?

Qui la politica si fa viva solo quando serve. Quando è tempo di elezioni, di promesse, di accordi sottobanco. Quando bisogna riaccendere speranze e distribuire illusioni a chi, da tempo, ha smesso di credere. Nelle istituzioni, nei politici, nel futuro.

Gli abusivi sono molti, più di quanti si possa immaginare, e forse nemmeno l’amministrazione comunale ha un quadro reale della situazione. Servirebbe un’indagine seria, un censimento dettagliato che permetta al sindaco e al suo assessore di capire chi, tra questi lavoratori, potrebbe accedere a una licenza, chi avrebbe diritto a una regolarizzazione.  

“Io ho tre figlie, le due gemelle sono disabili. Ho fatto domanda decine di volte per mettermi in regola, ma niente. Alla Dusty mi hanno preso per sei mesi, poi mi hanno lasciato a casa” Giuseppe i quaranta li ha superati da un po’, è tra i più agiati, sa che quella bancarella è l’unico sostentamento per le sue gemelline disabili, è disposto a tutto ma non può cedere e dice agli agenti della Locale che domani lui sarà ancora lì, così come tutti gli altri giorni a venire. Questa bancarella è l’unico modo che ho per portare qualcosa ai miei figli.” 

E quel “qualcosa” è facile da immaginare. Un euro al chilo per i limoni, ortaggi sotto l’euro, mazzetti di prezzemolo a cinquanta centesimi. Basta uno sguardo ai banchi colmi al mattino e vuoti a fine giornata per fare i conti: il giro d’affari, alla fine, è misero. Qualche decina di euro. Appena abbastanza per tirare avanti, mai abbastanza per vivere davvero.

Molti si portano addosso il peso di vite sbagliate, errori di gioventù, famiglie spezzate, lavori falliti o mai davvero iniziati. Storie di sfruttamento, di illusioni svanite, di tentativi di riscatto che non hanno mai trovato spazio. È il sottobosco di una società che arranca, che si muove ai margini della legalità perché, spesso, non ha alternative. Un limbo in cui chi cade rischia di restare intrappolato per sempre.  

Eppure, è proprio da qui che la società civile e le istituzioni dovrebbero iniziare ad ascoltare. Non con giudizi affrettati, non con repressioni a colpi di verbali e sequestri, ma con la volontà di capire. Perché dietro le bancarelle improvvisate, dietro la merce esposta su teli di fortuna, ci sono storie complicate, distorte, segnate dalla disperazione quotidiana. Ma anche storie che, con un’opportunità, potrebbero prendere un’altra direzione.  

Una bomba a orologeria

La Fiera di Catania è molto più di un mercato: è un termometro perfetto della tensione sociale che attraversa il Paese. Qui, dove una fetta consistente della popolazione vive sotto il margine di una vita dignitosa, la sopravvivenza si gioca su una manciata di centesimi. Un’economia spietata, un baratto dantesco dove domanda e offerta si incontrano nell’inferno degli ultimi.

Sentire le notizie alla radio, dell’onorevole Santaché rivendicare il diritto al lusso, al bello e alla ricchezza, mentre passo tra queste bancarelle mi rendo conto quanto davvero distante sia la politica dal Paese reale.

1 Comment

  1. Grazie e grazie ancora
    Che leggerezza leggere. I suoi articoli intrisi di umanità, di verità gridata si “sordi” mi fa sentire appagata di così tanta capacità di leggere la realtà.

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