Da qualche anno vivevo a Milano, dopo Roma e Londra. La città meneghina era da sempre nei miei programmi, l’avevo conosciuta durante il servizio militare, per me rappresentava la Terra promessa: lì c’erano i grandi giornali, la fotografia di moda, il dinamismo e la vitalità di una città dai mille eventi, mostre, concerti ma anche impegno sociale, politica, contestazione e glamour, una miscela unica al mondo.
Da giovane fotografo, aspirante giornalista, non poteva esserci luogo migliore ma Milano non regala niente a nessuno, ancora oggi è così, devi guadagnartelo. La fotografia di moda era all’apice della popolarità, orde di giovani arrivavano da tutto il mondo, con cognomi più cool e origini più esotiche delle mie – vuoi mettere Miami con Catania o Londra con Catania? – i giovani fotografi stranieri avevano vita facile, così la mia attesa nelle anticamere delle redazioni dei giornali di moda fu inevitabilmente più lunga e sofferta e nel frattempo dovevo pur vivere. Se a Roma avevo vissuto anni durissimi ma tutto sommato in leggerezza, nelle città eterna bastava davvero poco per vivere, Milano, invece, era, è più dura, competitiva ma generosa, sa riconoscere il merito e il lavoro ma non tollera il piagnisteo, “rimboccati le maniche, ci sono mille lavori lì fuori… “mi dicevo.
Un’amica mi indica un’opportunità: “Roberto è un lavoro semplice e ti gestisci come vuoi, nei tuoi tempi morti, non hai obblighi” mi sembrava il lavoro perfetto per me che già mal digerivo l’obbligo di trovare un modo per vivere fuori dalle mie aspirazioni. “Vai in fondo a via Piranesi, c’è la sede di Telepiù, chiedi del gruppo di lavoro della Camozzi”.
Da qualche anno Telepiù aveva introdotto in Italia un nuovo modo di vedere la tv, soprattutto i film, in abbonamento e senza pubblicità, una rivoluzione. Si sa, gli italiani non amano le rivoluzioni ma in questo caso avevano ragione: perché pagare per qualcosa che erano abituati ad avere gratis? La prima Pay per View italiana stentava a decollare, pochi abbonamenti.
Il gruppo di lavoro della Camozzi (non prendetelo per certo il nome, credo sia questo ma non ne sono sicuro) si era inventato un sistema ingegnoso per far conoscere l’offerta di Telepiù ma soprattutto la possibilità di vedere un film tutto d’un fiato, senza interruzioni e “consigli per gli acquisti” delle tv commerciali che dilatavano i tempi di un film di novanta minuti in tre ore. L’offerta era semplice, ricevere gratuitamente per tre mesi il decoder, in comodato d’uso, senza nessun impegno e senza nessun esborso e decidere dopo se fare l’abbonamento. Non costava poco, circa cinquecentomila lire l’anno, se si considera che gli italiani avevano la tv commerciale, film e spettacoli gratis, sorbirsi la pubblicità era l’unico prezzo.
In pochi mesi gli abbonamenti cominciarono ad arrivare, si moltiplicavano ogni settimana e in meno di sei mesi il grafico delle adesioni superò ogni previsione, solo a Milano il test dei ragazzi di via Piranesi avevano prodotto migliaia di abbonamenti, più di tutti quelli prodotti in tutta Italia nei primi due anni di esistenza di Telepiù. Dopo i tre mesi di prova il tasso di adesione era di oltre il 70, 80 per cento, per alcuni installatori si arrivava anche al 90 per cento. Il successo spesso dipendeva dall’abilità di saper sintonizzare bene il decoder e in quello io ero un mago, riuscivo a installarlo ovunque, anche dove c’era poco segnale.
Ben presto qualcuno a Milano si accorse di questa anomalia: che cosa stava succedendo in via Piranesi ma, soprattutto, come hanno fatto?
Nel gruppo di lavoro viene annunciata una riunione importante, indispensabile esserci.
C’era aria di grandi annunci, ci avevano suggerito di vestirci un po’ più sobriamente, niente jeans o magliette che indossavamo tutti i giorni. Non era la solita riunione che facevamo una tantum per vedere l’andamento degli abbonamenti, delle persone volevano conoscerci.
Tre uomini in completo grigio e camicia azzurro pallido si presentarono, il motivo della riunione era semplice: il proprietario di Telepiù, un ricco imprenditore sudafricano, aveva chiesto una mano al suo amico Silvio Berlusconi per cercare di vendere gli abbonamenti della prima Pay per View italiana e noi eravamo la migliore mano tesa all’amico sudafricano.
Per i managers arrivati da Programma Italia, Il nostro metodo era “apprezzabile” ma andava disciplinato, organizzato e replicato in tutta Italia. Basta cani sciolti, i più bravi diventavano capigruppo, responsabili di altri venditori. Riunioni organizzative e motivazionali erano all’ordine del giorno. C’era una riunione per tutto, per presentare i nuovi arrivati, per discutere il successo di alcuni e l’insuccesso di altri e poi, inevitabilmente, almeno una volta a settimana il grafico comparativo tra i singoli venditori, dei capigruppo e man mano di tutta la forza vendita, perché nel frattempo avevamo assunto una nuova identità: forza vendita. Fino all’arrivo degli uomini in grigio non sentivamo la necessità di organigrammi, riunioni e grafici delle “redenptions”, ognuno si organizzava come meglio credeva, negli orari e nei tempi più congeniali a ogni singolo scapestrato di via Piranesi, e nel gruppo c’era di tutto: dallo studente universitario all’eternamente fuori corso, dal panettiere che aveva tanti amici a cui vendere l’abbonamento, alla divorziata che doveva integrare. Gli abbonamenti crescevano ma bisognava introdurre altri strumenti motivazionali, far crescere la forza vendita, disciplinarla, dargli forma e regole: per gli uomini abito scuro e camicia azzurra diventarono un obbligo, per le donne tailleur e scarpe con i tacchi. Il successo del gruppo era sotto gli occhi di tutti e l’imperativo per tutti gli altri gruppi sparsi in Italia era imitarli, fare come quelli di Milano, clonare il modello.
Ben presto anche i risultati cominciarono ad assumere il carattere di una competizione tra gruppi.
Ogni settimana i risultati erano motivo di analisi, commenti e nuove sfide. Ogni settimana l’asticella si alzava, la competizione diventava sempre più avvincente e i premi cominciarono a fioccare. Io avevo vinto quasi tutto più ma la cosa che mi trattenne dall’andar via, non sopportavo l’idea di spendere ore in riunioni, tempo sprecato e sottratto a possibili nuovi abbonamenti e alla mia vita parallela da fotografo part time, erano soldi che percepivo anche sugli abbonamenti che facevano i ragazzi del mio gruppo, e ovviamente mi aiutarono a cambiare idea. Da solo riuscivo a portare a casa diverse decine di abbonamenti, con il gruppo i numeri si moltiplicarono rapidamente, gli assegni mensili delle provvigioni erano milionari (delle vecchie lire).
Primi mesi del 1993: viene annunciato un grande “contest” ma il premio verrà svelato più in là. Io scommetto subito: a pranzo con il Berlusconi.
Vinco la scommessa e anche la gara, io e capigruppo più bravi, assieme a un nutrito gruppo di uomini in grigio saremo ospiti ad Arcore.
C’è tutto lo stato maggiore di Programma Italia, c’è il socio Ennio Doris, ci sono i vertici di Pubblitalia. Nel salone centrale della grande dimora viene allestito un grande tavolo quadrato per un centinaio di commensali. Prima del brindisi per i risultati raggiunti c’è un altro grande annuncio che il presidente deve fare. C’è sorpresa, anche tra tanti uomini in grigio, solo il piccolo gruppo di uomini che siedono accanto al presidente ha l’aria di conoscere quello che sta per succedere.
Nessun nuovo contest, nessuna nuova gara e nessun premio, il presidente annuncia la sua discesa in campo, entrava in politica.
Settimane dopo tutta Italia fu tappezzata con i manifesti di bambini con sfondo azzurro e la scritta “forza Italia”, anni dopo realizzai che ero stato tra i primi in Italia a sentire quell’annuncio.
Era il due giugno 1993, il giorno del mio trentaduesimo compleanno. L’anno dopo Silvio Berlusconi diventa il presidente del Consiglio più longevo della storia d’Italia.