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Diario Siciliano n.1

9 gennaio 2024, a cavallo tra nord e sud.

Dopo quarant’anni torno a essere un residente siciliano, una scelta dettata da ragioni fiscali, per il fisco la prima casa deve coincidere con la residenza. Non che mi dispiaccia, anzi, Catania in questo momento offre condizioni migliori dell’inquinata e carissima Milano. Nonostante molte classifiche releghino il capoluogo etneo tra le ultime posizioni nella classifica di vivibilità – 92° su 107 – per me la mia città natale oggi offre condizioni di vivibilità che, evidentemente, le classifiche non prendono in considerazione, due su tutte: qualità dell’aria, nevrosi collettiva. Sarebbero molte di più le ragioni ma su queste non c’è storia, Catania batte Milano due a zero. 

Sulla qualità dell’aria non c’è molto da spiegare. Milano da qualche decennio le ha provate tutte contro le polveri sottile, il killer silenzioso che ogni anno causa migliaia di tumori, sembra un mostro invisibile duro da sconfiggere e il risultato è sotto gli occhi di tutti. Divieti di circolazione e rottamazione delle vecchie auto sono stati, per ora, solo un regalo per le case automobilistiche e le zone a traffico limitato un ottimo strumento di monetizzazione per le affamate casse comunali. I propositi della giunta milanese parlano di ulteriori azioni per il contenimento del traffico automobilistico privato, di rincari dei trasporti, dei parcheggi e del ticket “Area C” che finiranno per trasformare il capoluogo lombardo in una città svizzera ma senza le retribuzioni elvetiche.

Discorso a parte merita la nevrosi da efficientismo, uno continuo stato di agitazione che i milanesi vivono costantemente. Si va sempre di fretta. Dopo quarant’anni fatico ancora adesso a individuare le origini della frenesia che pervade i milanesi anche se, devo confessare, in talune stagioni ho scoperto di esserne stato contagiato.

La città vive in continuo movimento, l’operosità dei vecchi milanesi ha contaminato anche i nuovi milanesi, anche quelli appena arrivati che ben presto e, forse anche meglio dei locali, hanno adottato la dottrina il tempo è denaro e per i milanesi” I danè a fan daná, ma avei minga fan tribülà” (I soldi fanno dannare, ma non averne è peggio).

La competitività internazionale e la veloce trasformazione che Milano ha subito negli ultimi vent’anni hanno trasformato anche il milanese: più competitivo, più business oriented, più rivolto al mondo esterno. La Milano del Signor G, quella delle case di ringhiera, dei balordi del bar del Giambellino o di Vincenzina di Jannacci sono solo un ricordo. C’è di buono che il milanese è consapevole di questa nevrosi positiva, sa di essersi un po’ abbrutito e trova il tempo per ironizzarci su e…. taac!  anche per farne un business. 

In questo diario racconterò del mio graduale ritorno alle origini, del modo di riuscire a vivere a cavallo di due città, di due mentalità, di due realtà. I temi e gli spunti non mancano, su entrambi i versanti ma privilegerò sicuramente quello siciliano, e non solo per mantenere fede al nome di questa rubrica ma perché ritengo che la Sicilia in questi ultimi anni abbia fatto qualche piccolo passo in avanti, qualche sussulto della società civile c’è, dei giovani, almeno quelli che hanno scelto di rimanere, sento la voglia di riscatto. Il bilancio non è certo rosa e fiori, anzi. 

La politica siciliana è stata un campione di malcostume, corruzione, malaffare e purtroppo riesce a perpetuarsi ad ogni elezione, qualunque sia il colore politico ma forse i siciliani, pochi per adesso, stanno imparando a fare anche senza la politica, senza dover ricorrere agli appoggi di amici e conoscenti, senza la raccomandazione del politico di turno, consapevoli di essere portatori di diritti e cittadini di Seria A come il resto degli italiani.

Il mio incontro con Silvio Berlusconi

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Da qualche anno vivevo a Milano, dopo Roma e Londra. La città meneghina era da sempre nei miei programmi, l’avevo conosciuta durante il servizio militare, per me rappresentava la Terra promessa: lì c’erano i grandi giornali, la fotografia di moda, il dinamismo e la vitalità di una città dai mille eventi, mostre, concerti ma anche impegno sociale, politica, contestazione e glamour, una miscela unica al mondo.

Da giovane fotografo, aspirante giornalista, non poteva esserci luogo migliore ma Milano non regala niente a nessuno, ancora oggi è così, devi guadagnartelo. La fotografia di moda era all’apice della popolarità, orde di giovani arrivavano da tutto il mondo, con cognomi più cool e origini più esotiche delle mie – vuoi mettere Miami con Catania o Londra con Catania? – i giovani fotografi stranieri avevano vita facile, così la mia attesa nelle anticamere delle redazioni dei giornali di moda fu inevitabilmente più lunga e sofferta e nel frattempo dovevo pur vivere. Se a Roma avevo vissuto anni durissimi ma tutto sommato in leggerezza, nelle città eterna bastava davvero poco per vivere, Milano, invece, era, è più dura, competitiva ma generosa, sa riconoscere il merito e il lavoro ma non tollera il piagnisteo, “rimboccati le maniche, ci sono mille lavori lì fuori… “mi dicevo.

Un’amica mi indica un’opportunità: “Roberto è un lavoro semplice e ti gestisci come vuoi, nei tuoi tempi morti, non hai obblighi” mi sembrava il lavoro perfetto per me che già mal digerivo l’obbligo di trovare un modo per vivere fuori dalle mie aspirazioni. “Vai in fondo a via Piranesi, c’è la sede di Telepiù, chiedi del gruppo di lavoro della Camozzi”. 

Da qualche anno Telepiù aveva introdotto in Italia un nuovo modo di vedere la tv, soprattutto i film, in abbonamento e senza pubblicità, una rivoluzione. Si sa, gli italiani non amano le rivoluzioni ma in questo caso avevano ragione: perché pagare per qualcosa che erano abituati ad avere gratis? La prima Pay per View italiana stentava a decollare, pochi abbonamenti.

Il gruppo di lavoro della Camozzi (non prendetelo per certo il nome, credo sia questo ma non ne sono sicuro) si era inventato un sistema ingegnoso per far conoscere l’offerta di Telepiù ma soprattutto la possibilità di vedere un film tutto d’un fiato, senza interruzioni e “consigli per gli acquisti” delle tv commerciali che dilatavano i tempi di un film di novanta minuti in tre ore. L’offerta era semplice, ricevere gratuitamente per tre mesi il decoder, in comodato d’uso, senza nessun impegno e senza nessun esborso e decidere dopo se fare l’abbonamento. Non costava poco, circa cinquecentomila lire l’anno, se si considera che gli italiani avevano la tv commerciale, film e spettacoli gratis, sorbirsi la pubblicità era l’unico prezzo.

In pochi mesi gli abbonamenti cominciarono ad arrivare, si moltiplicavano ogni settimana e in meno di sei mesi il grafico delle adesioni superò ogni previsione, solo a Milano il test dei ragazzi di via Piranesi avevano prodotto migliaia di abbonamenti, più di tutti quelli prodotti in tutta Italia nei primi due anni di esistenza di Telepiù. Dopo i tre mesi di prova il tasso di adesione era di oltre il 70, 80 per cento, per alcuni installatori si arrivava anche al 90 per cento. Il successo spesso dipendeva dall’abilità di saper sintonizzare bene il decoder e in quello io ero un mago, riuscivo a installarlo ovunque, anche dove c’era poco segnale.

Ben presto qualcuno a Milano si accorse di questa anomalia: che cosa stava succedendo in via Piranesi ma, soprattutto, come hanno fatto? 

Nel gruppo di lavoro viene annunciata una riunione importante, indispensabile esserci.

C’era aria di grandi annunci, ci avevano suggerito di vestirci un po’ più sobriamente, niente jeans o magliette che indossavamo tutti i giorni. Non era la solita riunione che facevamo una tantum per vedere l’andamento degli abbonamenti, delle persone volevano conoscerci.

Tre uomini in completo grigio e camicia azzurro pallido si presentarono, il motivo della riunione era semplice: il proprietario di Telepiù, un ricco imprenditore sudafricano, aveva chiesto una mano al suo amico Silvio Berlusconi per cercare di vendere gli abbonamenti della prima Pay per View italiana e noi eravamo la migliore mano tesa all’amico sudafricano.

Per i managers arrivati da Programma Italia, Il nostro metodo era “apprezzabile” ma andava disciplinato, organizzato e replicato in tutta Italia. Basta cani sciolti, i più bravi diventavano capigruppo, responsabili di altri venditori. Riunioni organizzative e motivazionali erano all’ordine del giorno. C’era una riunione per tutto, per presentare i nuovi arrivati, per discutere il successo di alcuni e l’insuccesso di altri e poi, inevitabilmente, almeno una volta a settimana il grafico comparativo tra i singoli venditori, dei capigruppo e man mano di tutta la forza vendita, perché nel frattempo avevamo assunto una nuova identità: forza vendita. Fino all’arrivo degli uomini in grigio non sentivamo la necessità di organigrammi, riunioni e grafici delle “redenptions”, ognuno si organizzava come meglio credeva, negli orari e nei tempi più congeniali a ogni singolo scapestrato di via Piranesi, e nel gruppo c’era di tutto: dallo studente universitario all’eternamente fuori corso, dal panettiere che aveva tanti amici a cui vendere l’abbonamento, alla divorziata che doveva integrare. Gli abbonamenti crescevano ma bisognava introdurre altri strumenti motivazionali, far crescere la forza vendita, disciplinarla, dargli forma e regole: per gli uomini abito scuro e camicia azzurra diventarono un obbligo, per le donne tailleur e scarpe con i tacchi. Il successo del gruppo era sotto gli occhi di tutti e l’imperativo per tutti gli altri gruppi sparsi in Italia era imitarli, fare come quelli di Milano, clonare il modello. 

Ben presto anche i risultati cominciarono ad assumere il carattere di una competizione tra gruppi.

Ogni settimana i risultati erano motivo di analisi, commenti e nuove sfide. Ogni settimana l’asticella si alzava, la competizione diventava sempre più avvincente e i premi cominciarono a fioccare. Io avevo vinto quasi tutto più ma la cosa che mi trattenne dall’andar via, non sopportavo l’idea di spendere ore in riunioni, tempo sprecato e sottratto a possibili nuovi abbonamenti e alla mia vita parallela da fotografo part time, erano soldi che percepivo anche sugli abbonamenti che facevano i ragazzi del mio gruppo, e ovviamente mi aiutarono a cambiare idea. Da solo riuscivo a portare a casa diverse decine di abbonamenti, con il gruppo i numeri si moltiplicarono rapidamente, gli assegni mensili delle provvigioni erano milionari (delle vecchie lire).

Primi mesi del 1993: viene annunciato un grande “contest” ma il premio verrà svelato più in là. Io scommetto subito: a pranzo con il Berlusconi.

Vinco la scommessa e anche la gara, io e capigruppo più bravi, assieme a un nutrito gruppo di uomini in grigio saremo ospiti ad Arcore.

C’è tutto lo stato maggiore di Programma Italia, c’è il socio Ennio Doris, ci sono i vertici di Pubblitalia. Nel salone centrale della grande dimora viene allestito un grande tavolo quadrato per un centinaio di commensali. Prima del brindisi per i risultati raggiunti c’è un altro grande annuncio che il presidente deve fare. C’è sorpresa, anche tra tanti uomini in grigio, solo il piccolo gruppo di uomini che siedono accanto al presidente ha l’aria di conoscere quello che sta per succedere.

Nessun nuovo contest, nessuna nuova gara e nessun premio, il presidente annuncia la sua discesa in campo, entrava in politica.

Settimane dopo tutta Italia fu tappezzata con i manifesti di bambini con sfondo azzurro e la scritta “forza Italia”, anni dopo realizzai che ero stato tra i primi in Italia a sentire quell’annuncio.

Era il due giugno 1993, il giorno del mio trentaduesimo compleanno. L’anno dopo Silvio Berlusconi diventa il presidente del Consiglio più longevo della storia d’Italia.

Ricordo della ricorrenza dei morti

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Il calendario Gregoriano, che usiamo dal 1582, e adottato da quasi tutti i paesi del mondo, a volte ci propone singolari coincidenze come quella di Tutti i Santi, festeggiati il primo novembre e il giorno dopo i morti, tutti i morti, come a indicare che Santi e morti hanno qualcosa in comune in più dell’essere passati a miglior vita, pure i morti per molti di noi sono santi. 

La commemorazione dei defunti in questi anni di globalizzazione è diventata la festa di Halloween, la gente non affolla più i cimiteri ma i centri commerciali, le feste in maschera e i bambini le strade con “scherzetto o dolcetto”. 

Per storia personale, purtroppo, ho cominciato a frequentare il cimitero in tenera età. Il Giorno dei Morti era l’occasione per rivedere parenti che non vedevi dall’anno prima e che incontravi solo lì, al cimitero. Ogni anno il rituale era sempre lo stesso, oltre ai fiori portavamo una boccetta di Sidol, la crema che serviva per pulire l’ottone delle scritte, una tanica per l’acqua e gli straccetti per lucidare il marmo, vestiti bene si andava di primo mattino. Per i bambini come me era un rituale consolidato, alleviato solo dalla gioia dei giocattoli che i morti avevano portano nella notte del primo novembre, una sorta di anticipo di Befana che in Sicilia non ha riscosso tanto successo, forse perché tanti avrebbero ricevuto solo carbone.

Da subito imparai a conoscere le storie degli occupanti delle tombe attorno a quella di mia madre.

Quella di Vitaliano Brancati era lì a due passi, e tutti, nel frettoloso via vai con enormi mazzi di fiori, si fermavano un istante. Per molti era lo scrittore marito dell’attrice Anna Proclemer, morto prematuramente, quarantasettenne; per i frequentatori delle librerie era l’autore di formidabili romanzi di successo, come Paolo il caldo, Don Giovanni in Sicilia, Il bell’Antonio. Qualche lapide più in là c’è la tomba che mi riporta in mente una storiella che avevo sentito, ha dell’incredibile e forse c’è una buona dose di fantasia dentro. Si raccontava che il figlio del morto avesse ricevuto in sogno le lamentele del padre per l’eccessiva umidità della tomba. I sogni si ripetevano e diventarono sempre più opprimenti. Il morto deplorava il fatto che stava praticamente a mollo. I parenti si decisero per far ispezionare la tomba, la trovarono completamente allagata. 

E poi ci sono i ricordi dei parenti dei vicini di tomba: volti che sapevo che avrei rivisto all’appuntamento della ricorrenza. La signora Rosa aveva un cespuglio di capelli nero corvino, come i suoi abiti, sopracciglia abbondanti e un sorriso dolce e melanconico. Tutti gli anni mi salutava sempre con grande affetto, come una zia che incontri raramente. Non ricordo le date, non so da quando avesse cominciato a frequentare quell’angolo del cimitero di Catania, se lei e sua figlia, erano già lì prima di quel fine agosto del 1964. 

La disperazione di una madre inconsolabile era sempre la stessa, solo le rughe ogni anno tracciavano un percorso diverso alle lacrime, rimaste immutate.  Tra le tombe dei vicini, tutti raccontavano dello strazio e del dolore della signora Rosa per la perdita della giovane figlia ventenne. Nella foto con la cornice di marmo l’immagine che sembrava tratta da un giornale di moda dell’epoca: una figura snella, disegnata da una gonna bianca, scarpe con i tacchi e una voluminosa massa di capelli raccolti in cima al capo rendevano ancora più snella la silhouette di una ragazza sorridente che tiene in mano un mazzo di fiori. “Troppo giovane, troppo giovane…” era il commento di chi passava davanti. Eravamo vicini di tomba, uniti da una disgrazia comune, la morte prematura che porta via vite troppo giovani. Mia madre aveva appena trentanove anni: troppo giovane, troppo giovane.

Non vivendo più a Catania, vado al cimitero quando mi trovo in città, spesso d’estate, fuori dalle ricorrenze comandate. Il cimitero è diventato una grande città silenziosa, ancora più grande di come lo ricordavo, all’interno transita persino un piccolo bus. Molte tombe sono abbandonate, le foto sbiadite e le date incomplete. Forse perché ci vengo “fuori stagione” c’è silenzio, una quiete che di certo ti aspetti di trovare ma che sembra irreale, almeno quella è rimasta come la ricordavo.

I platani regalano qua e là grandi macchie d’ombra, le tombe, di cui avevo imparato a conoscere da bambino la storia degli occupanti, hanno l’aria di essere state dimenticate. 

Con gli anni ho imparato a conoscere meglio il lavoro di Vitaliano Brancati, passando mi fermo un istante. La sua tomba mi sembra un po’ più piccola di come la ricordavo, ha l’aria impolverata.

L’ultima volta ho portato mia figlia a vedere il posto dove riposa la nonna di cui porta il nome. Era primavera, i fiori nei loculi e nei cestelli ai piedi delle tombe erano secchi, probabilmente erano del precedente 2 novembre. Il luogo mi è familiare, e di certo è l’ultimo posto dove ti aspetti di trovare dei cambiamenti. Un dettaglio mi saltò all’occhio: nella cornice di marmo scolpita come un libro che ritraeva la figlia della signora Rosa, la foto della bella ventenne con i capelli raccolti in su come una modella degli anni 60 non c’era più, o meglio, la stessa foto era stata sostituita con una stampa recente, più piccola, per fare spazio a quella della signora Rosa.

L’ultima volta che ricordo di averla incontra, molti anni dopo, non mi aveva riconosciuto. La sua grande chioma color corvino era diventata bianca, rimpicciolita dalla vita, sempre curva sulla tomba della bella figlia a lucidare ogni lettera e ogni centimetro.

Nelle foto era come me la ricordavo da bambino, con i folti capelli corvino e le sopracciglia folte, nessuna ruga. Madre e figlia erano insieme, condividevano la stessa cornice, quasi come due sorelle.

La mia Alitalia

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La fine di un simbolo e di un enorme spreco

Per chi ha avuto l’occasione di viaggiare molto per lavoro – ho messo piede in una ottantina di paesi in giro per il mondo – il momento del rientro a casa, magari dopo una lunga trasferta di cibo così così e alberghi con il plexiglass al posto dei vetri – i freelance non sempre vanno nei 5 stelle – quando arrivava il momento di rientrare, con la carta d’imbarco con l’ala tricolore in mano, un senso di gioia e di casa faceva dimenticare tutti i patimenti e la durezza di certi posti. 

Dopo il check-in, già sul lungo corridoio che porta all’ingresso dell’aereo, degusti l’idea di una caffè, di un quotidiano che ti racconta dei fatti di casa e di qualcuno che parla la lingua di tua madre, l’hostess che ti dà il benvenuto. Non importa se il volo dura sei o otto ore, sai che sei in famiglia, percepisci ogni sfumatura del linguaggio, delle espressioni, ti senti “quasi” come sul divano di casa, tra amici. E quando è il momento dello spuntino, gioisci come un bimbo davanti a un uovo di Pasqua: cosa ci daranno da mangiare?   

Nei voli a lungo e medio raggio le maggiori compagne aeree continuano a servire la colazione, uno spuntino o la cena, in ragione della durata del volo, cosa che le low-cost hanno cancellato, facendo perdere quel momento divertente, che fa parte del viaggio, scoprire cosa c’è nei tanti contenitori sul vassoietto che gentili e sorridenti assistenti di volo servono. Magari il petto di pollo con riso bianco ti ricorda molto il paese che stai lasciando ma accanto scopri dei fantastici pezzetti di Parmigiano o dei piccoli  formaggini rotondi Belpaese, che non vedevi più dai tempi di Carosello.

La livrea e i colori di Alitalia sono stati per decenni un segno di distinzione e di forte identità nazionale, e anche in Bangladesh, l’ultimo dei ragazzini scalzo e vestito di stracci, che staziona davanti all’uscita dell’aeroporto internazionale di Dhaka, in attesa di poterti portare le valige, sa che quando arriva il volo dell’Alitalia, nel cuore della notte, è un buon momento “gli italiani ti danno sempre qualcosa e se non ti danno soldi ti danno i biscotti o i pezzetti di formaggio che non hanno consumato in viaggio”.

Non sempre tutti i voli con Alitalia sono andati bene, i ritardi o il mancato arrivo di un bagaglio metteva in seria difficolta tutto il viaggio, spesso fatto di date e appuntamenti. Una volta la borsa con il cavalletto fece il giro di una mezza dozzina di aeroporti europei prima di vedermelo recapitare in albergo, ad Amman, l’ultimo giorno di lavoro. Fu l’occasione per scoprire che usare la telecamera a mano libera poteva dare uno stile più audace alle immagini. 

Un giorno, su un volo da Milano ad Atene, con scalo a Roma, sale a bordo un pilota Alitalia che si siede accanto a me – non ricordo se tornava o stava raggiungendo la sua destinazione di lavoro. Erano i mesi dei “Volenterosi” dei “Capitani coraggiosi”, quella ammucchiata di imprenditori messi insieme dal governo Berlusconi che dovevano salvare – una delle tante volte – Alitalia. 

Era stato proclamato lo stato di agitazione, gli scioperi erano dietro l’angolo. Conversando con il mio vicino di posto, chi meglio di lui poteva dirmi perché scioperavano in un momento delicato come quello, in cui si stava facendo di tutto per salvare la compagnia, il comandante mi disse: “ guardi, il volo Fiumicino Atene non è sufficiente per elencare le ragioni più importanti del nostro dissenso. Ne elencherò un paio. Tra i volenterosi che dovrebbero salvare Alitalia c’è un imprenditore che ha fondato una compagnia aerea che ormai è data per fallita e il piano di salvataggio di Alitalia prevede l’assorbimento di quella compagnia, del suo personale e dei suoi debiti. Ma non dovevano salvare l’Alitalia? Un’altra cosa, che pochi sanno, è che Alitalia paga le camere degli alberghi, dove pernotta il personale in trasferta, mediamente il doppio del prezzo di mercato e sempre fra gli imprenditori che dovrebbero salvare Alitalia c’è un imprenditore alberghiero che ha stretto un accordo con Alitalia sempre per i pernottamenti del personale, lei immagina a quali prezzi? Adesso vogliono salvare la compagnia facendo pagare al personale i costi di anni di mala gestio, e lei mi chiede se è saggio scioperare?”

Io ero molto contrariato, egoisticamente, per lo stato di agitazione e per l’eventualità di uno sciopero che rischiava di mandare all’aria i miei piani ma non potevo non essere d’accordo con il mio vicino di volo.

Eh sì, a volte si danno giudizi affrettati, senza conoscere tutte le ragioni degli altri e così, per anni, abbiamo additato le “assurde pretese” contrattuali che comitati di base pretendevano di mantenere, anche quando le condizioni non c’erano più, ma immagino lo stato d’animo di molti lavoratori della nostra compagnia di bandiera veder spolpata l’azienda da finti salvatori e spregiudicati politici che hanno usato Alitalia come una grande fonte di dispensatrice di posti di lavoro, di consulenze, di contratti di fornitura e tante altre indicibili nefandezze.

Na tazulella ‘e cafè

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Storie dal “bél paèse” 

“L’Italia, l’Italia tutta intera, ha un grandissimo problema irrisolto col caffè”.

Anche il caffè cade vittima del revisionismo culturale, etico e consumistico che sta investendo alcuni simboli che rappresentano una stagione non felice della storia umana, la tratta degli schiavi. Non che mi dispiaccia, ma a volte le operazioni di revisionismo storiografico riescono a essere peggiori della stessa storia che tentano di rileggere. 

Il caffè ha origini africane, in Etiopia, ma la rarità delle piante e il costo di coltivazione spinsero i colonizzatori europei a esportare le piantagioni nel nuovo mondo, dove la pratica schiavista produceva importanti utili.

Noi italiani, maldestri colonizzatori, che ci siamo macchiati le mani del sangue di migliaia di africani, senza ragione e senza profitto – se vogliamo ragionare in termini utilitaristici – non abbiamo partecipato alla tratta degli schiavi, né abbiamo adottato il sistema come mezzo di sfruttamento umano ed economico su larga scala, com’è successo nel mondo anglosassone. E forse per questo, non potendo abbattere statue di schiavisti o colonizzatori, ce la prendiamo con i prodotti di quell’origine.

Un lungo articolo de La Repubblica demolisce un culto, un rito, una quotidianità che milioni di Italiani consumano ogni giorno senza essersi mai fatti alcune domande: ma sto bevendo il miglior caffè possibile, lo sto pagando quanto dovuto, esiste un caffè degno del suo nome? Tutte domande, invece, che l’autore s’è fatto e alle quali ha risposto anche con il supporto di diversi addetti ai lavori. L’articolo riconosce che gli italiani non amano il nazionalismo – eccetto forse per il calcio, ma quella è fede e non si discute, aggiungo – e indica alcuni prodotti tipicamente italiani, su cui non siamo disposti a transigere: pasta, pizza e caffè. E proprio per quest’ultimo viviamo in un enorme equivoco, anzi, uno dei più classici psicodrammi, di cui non ce ne rendiamo conto e di conseguenza non lo ammetteremo mai. E poi aggiunge “non ancora, per lo meno”. Evidentemente il giornalista ripone particolare fiducia sulla possibilità di redenzione degli italiani o sugli effetti taumaturgici del suo scritto.

L’articolo inizia spiegando le ragioni per cui gli italiani credono di bere il miglior caffè del mondo: una comunicazione errata e in cattiva fede, una retorica superficiale, elementi di goffo sciovinismo, forme passivo-aggressive di machismo. Ebbene, questi, secondo l’articolo, sarebbero le ragioni che fanno credere agli italiani di bere il miglior caffè del mondo, pensate, persino più di quello francese e tedesco, e non è una battuta. “Questo malinteso ha spiegazioni culturali, sociali, e antropologiche” afferma l’articolo “nelle quali non entreremo, ci limiteremo a spiegare però che gli elementi per giustificare questo senso di superiorità semplicemente non esistono. Anzi, proprio a cagione di questa spocchia in Italia si beve attualmente il peggior caffè del mondo”. 

Non escludo che da qualche parte, in giro per il mondo, si possa bere un caffè migliore di molti bar che si trovano nelle aree di servizio delle nostre autostrade, anzi, vi dico che quei luoghi sono l’ultimo posto dove potete trovare un buon caffè. Probabilmente la stanchezza della guida o la necessità di interrompere monotoni viaggi, molti italiani tracannano pessimi caffè come amare medicine, buone solo per distrarsi dalla noia della guida ma, se non stiamo bevendo il migliore caffè del mondo – sicuramente non quello della stazione di servizio – perché l’autore dell’articolo butta il sasso nello stagno del dubbio e conclude il suo prologo dicendo: “questo malinteso ha spiegazioni culturali, sociali e antropologiche nelle quali non entreremo”. 

Continuiamo a vivere nell’ignoranza e non sapremo mai le ragioni culturali, sociali, antropologiche che ci fanno vivere nel più grande equivoco e clamoroso malinteso gastronomico italiano e soffermiamoci sugli elementi, veri difetti, che l’articolo elenca e che ci fanno giustificare questo senso di superiorità che aleggia tra gli italiani in fatto di caffè.

Il primo a salire sul banco degli imputati è l’uso dello zucchero. Oltre l’evidente danno alla salute per il consumo di saccarosio che il caffè induce, “se una bevanda ha bisogno di un edulcorante per essere bevuta, è una bevanda che ha problemi”, si afferma perentoriamente nel lungo articolo. Non so dire se, in effetti, sia così, ma mi sorge un dubbio: e se gli italiani, e tutti quelli che zuccherano il caffè, fossero in buona compagnia? In molte regioni del mondo, Turchia, Iraq, Siria, ho bevuto un caffè – c’è concesso chiamarlo ancora così? – fortemente zuccherato che, come il tè, in quelle aree del mondo è consumato molto dolce. Probabilmente per l’autore quello servito in quei paesi non assurge al rango di caffè ma di altra bevanda.

Tostatura e colore del caffè. Anche su quest’argomento l’autore ha idee chiare e fermissime certezze. Il colore del chicco di caffè tostato deve essere marroncino tenue. Il colore scuro dei chicchi che vediamo nei macinini del bar è dovuto “all’abbrustolimento” che i torrefattori esercitano, secondo l’articolo, per coprire i difetti e la scarsa qualità, servendoci un estratto di carbone invece che caffè. Ahinoi! 

Il caffè, come qualunque prodotto vegetale, è soggetto a mutazioni e cambiamenti nel corso della lavorazione e anche dopo. Immaginare di mantenere il caffè con lo stesso colore come appena tostato, è un’ingenua convinzione.  Gli oli e la mutazione innescata dalla torrefazione, così come la luce, producono inevitabilmente un processo di decadimento. Basta consumarlo entro determinati parametri, senza farlo invecchiare troppo e prepararlo in un tempo ragionevole per gustare un buon caffè: del resto non abbiamo mai sentito parlare di un’ottima annata di arabica del “62.

Prezzo dell’espresso. Quando parliamo di caffè in Italia, ci riferiamo automaticamente all’espresso del bar o, fino a qualche anno fa a quello della moka fatta in casa, oggi sostituita dalle macchinette a cialde. L’articolo mette sotto accusa anche il prezzo dell’espresso – troppo basso – e addirittura collega lo sfruttamento, il lavoro nero e la sofferenza di tutta la filiera, dalla piantagione fino al bar, al prezzo che paghiamo. Evidentemente s’immagina che i nostri torrefattori e i proprietari dei bar abbiano proprie piantagioni o contratti di esclusiva, da poter imporre il prezzo più vantaggioso, saltando quello che comunemente avviene nella contrattazione delle aste internazionali. Un buon caffè, di marca, presso un distributore importante può oscillare dai 20 ai 30 e oltre €/Kg. Il prezzo può avere importanti oscillazioni in base a molti fattori, come la forza contrattuale del cliente, se il fornitore dà in comodato d’uso le attrezzature e altri accordi particolari. Parlando di miscele comunemente utilizzate in Italia, formate da arabica e robusta, in percentuali che variano in base al gusto del produttore, possiamo osservare che con un chilogrammo di caffè si preparano dalle 140 alle 160 tazzine di espresso, molto dipende dalla quantità che il barista sceglie di usare. L’ideale sarebbero sette gr., quindi, con un chilo si preparano 140 caffè che oggi producono, in media, 140 euro d’incasso. Se il ristoratore ha pagato il caffè a 30€ il chilo – solo i più piccoli e sprovveduti baristi lo pagano questo prezzo – sono comunque perfettamente in linea con il “costo della materia prima” del mondo della ristorazione.   

Caffeina e gusto. Nell’articolo si parla anche di paradosso, con riferimento agli effetti della caffeina, e il paradosso sta nel fatto che essendo un frutto tropicale come può “far male”? Anche qui l’autore dell’articolo rassicura che, come la banana o un altro frutto tropicale, non può far male, bensì è la cattiva gestione della filiera che produrrebbe un caffè con un’alta percentuale di caffeina, a essere dannosa al nostro sistema nervoso. Ancora una volta l’immaginazione suggerisce che i torrefattori italiani non riescano a intervenire sufficientemente sui metodi di coltivazione, per cui solo noi italiani beviamo un pessimo caffè. Quindi, anche bevendo una dozzina di caffè, proveniente da una filiera correttamente gestita, la caffeina di dodici tazzine di espresso non dovrebbe procurarci nessuno scompenso, è un frutto tropicale come può far male? 

Sui benefici del caffè e tutte le altre bevande nervine si sono spese migliaia pagine di ricerche, di test, di studi, dove tutte hanno nelle loro conclusioni un unico elemento: il caffè, il tè, la cioccolata, la camomilla e gli infusi assimilabili come quelli del guaranà o dell’erba Mate, sono accomunati dall’avere un effetto stimolante ed energizzante sull’organismo. Punto. 

Per il resto, ogni ricerca ha messo in risalto determinate conseguenze, benefici, danni ed effetti collaterali, tutto in accordo all’obiettivo che la ricerca voleva dimostrare. Sull’argomento non serve dire altro, si è già detto e scritto fin troppo, tanto da non avere chiaro ancora oggi se fa bene o male, però, tutti i ricercatori sono concordi nel dire che eccedere nel consumo può avere effetti nefasti. 

L’articolo afferma che gli italiani hanno la certezza che il caffè abbia il sapore che conosciamo. Come dire, siete sicuri, magari in realtà ha tutt’altro sapore. E, in effetti, si legge chiaramente: “Il sapore del caffè è altra cosa” e non quello del carbone cui siamo abituati. 

Se siamo abituati a bere estratto di carbone, qual è il caffè di riferimento, quello che avrebbe l’autentico sapore della bevanda che aspiriamo a bere quando mandiamo giù un espresso? È quello francese, tedesco, svedese o il lungo americano? E qual è il metodo di preparazione del caffè perfetto? Caffettiera moka, all’americana, con filtro mobile a compressione, espresso, filtrato, alla napoletana o forse quello turco, preparato nel cezve, il tipico bricco di rame e ottone con il lungo manico? 

Non c’è traccia, nessun riferimento da prendere come termine di paragone per comprendere cosa sia davvero il caffè e quale il suo gusto autentico.

Come far uscire il caffè dalla banalizzazione?

C’è, invece, nell’articolo, una serie di suggerimenti per far uscire il caffè dalla banalizzazione. Non è chiaro, neanche qui, se noi italiani abbiamo banalizzato il caffè come prodotto o forse come lo consumiamo, ed è ancora meno chiaro, il modello Smart o Cool, mutuando due termini dal linguaggio marketing, cui dovremmo guardare. Molti degli addetti ai lavori fanno riferimento allo “specialty coffè” una panacea a tutti i mali del comparto.

Lo specialty coffè è una corrente di pensiero che sta facendo capolino tra gli addetti e che mescola alcuni importanti concetti, come la sostenibilità, l’equo compenso per i produttori, controllo della filiera, forse un disciplinare sul prodotto caffè, come si è fatto con tanti altri prodotti – anche se nessuno ne parla – la preparazione professionale dei baristi. Una monumentale montagna di argomenti e buoni propositi che gli addetti ai lavori sentono come un’impellente esigenza per “sbanalizzare” tutto il comparto. Scorrendo tra le ricette che i ristoratori, baristi, torrefattori hanno elencato per un migliore e consapevole consumo della magica bevanda – insieme al tè la più bevuta in tutto il mondo – c’è quella di acculturare il cliente nel consumo del caffè, non “per esigenza” ma piuttosto “per esperienza”. Qualcuno indica la necessità di comunicare ai consumatori “che bere tazzine di caffè a un euro è, semplicemente, uno scandalo” e lo Specialty coffè è l’unico comparto dell’industria del caffè a non generare povertà. Immagino che i baristi di questi avveduti imprenditori percepiscano stipendi superiori alla media e paghino il caffè più del doppio del prezzo di mercato o, forse, lo Specialty è solo una bella etichetta per giustificare un espresso magari a tre Euro che ripaghi anche le luci, la musica e l’atmosfera. 

Sostenibilità e scelta Green sono due concetti che il marketing ha colto al volo per ammantare molti prodotti di una nuova veste, di moda, molto ricercati da un popolo di nuovi consumatori che non si limitano a consumare e basta ma si chiedono la provenienza e l’impatto su ambiente e popolazioni dei luoghi di provenienza dei prodotti che consumano. Non sempre quest’attenzione dei consumatori si traduce in migliori condizioni dell’origine della filiera, spesso è l’ultimo miglio a beneficiarne, ma vale ancora la pena insistere nel cercare di avere informazioni sulle condizioni dei lavoratori della filiera perché, in piccole realtà, a macchia di leopardo, significativi passi avanti sono stati fatti.

Tornando al clamoroso equivoco gastronomico d’Italia, che il lungo articolo de La Repubblica ha tentato di dipanare, più che equivoco gastronomico dovremmo parlare di provincialismo, come quello del consumatore italiano, convinto di bere il miglior caffè del mondo, forse anche l’autore sembra non essere sfuggito, soffermandosi sulle abitudini, sui tic e le manie, senza soffermarsi sulle origini di tutto ciò. 

Le abitudini, le usanze, le consuetudini, sommate al modo di vivere, alle tradizioni, sono tutti gli elementi stratificati, in una parola, qualcosa che ha a che fare con la cultura di un popolo, e se non si prendono in esame proprio quegli aspetti che all’inizio dell’articolo l’autore non ha voluto analizzare, è difficile comprendere cosa c’è dietro al caffè sospeso di Napoli o al Bicerin torinese.    

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Il mio G8 di vent’anni fa

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Non ho mai raccontato la mia esperienza al G8 di Genova di vent’anni fa, non avrebbe aggiunto o rivelato nulla a quello che abbia visto e letto sui quei terribili giorni. Anche una buona dose di disagio nel ricordare quelle poche ore trascorse a Genova mi ha fatto archiviare quell’esperienza. 

Come fotogiornalista raramente ho scelto di seguire quelle che in gergo si chiamano Hot News, gli eventi di una certa importanza che sono seguite dalle più importanti agenzie di stampa del mondo intero, ed è abbastanza ovvio che, come freelance, non posso competere sulla velocità. Infatti, la mia scelta cadde su un aspetto marginale, meno impattante ma certamente importante: avrei raccontato il G8 da un altro punto di vista, della gente comune, degli operai e pensionati che vivevano nelle zone rosse. Il settimanale tedesco al quale avevo proposto il servizio aveva dato luce verde. Ricevute alcune dritte e chiarita qualche richiesta, decisi di andare a Genova in treno. Da Milano erano diversi i gruppi di partecipanti e attivisti – chiamiamoli così – che riempivano i vagoni. L’aria che si respirava era quella di prima della battaglia, come quando Cesare, esortando l’esercito alla battaglia secondo l’uso militare, Cesare ricordò i propri meriti acquisiti in ogni tempo verso di loro e soprattutto, chiamando loro stessi a testimoni… ma loro malgrado, tanti finirono per essere protagonisti e molti anche vittime della violenza che in quelle ore si scatenò in tutta la città. La tentazione era di cominciare a fotografare e raccogliere qualche storia a bordo del treno ma poi, visto il clima che si respirava, ricordai a me stesso che non era quella la storia che stavo cercando di raccontare.

Alla radio le notizie riferivano di tafferugli e scontri isolati qua e la per la città ma nulla che lasciasse presagire quello che sarebbe accaduto da lì a qualche ora. Avevo appuntamento con Ettore, un pensionato della Breda che viveva a due passi da Piazza Alimonda, dove cadde ferito a morte Carlo Giuliani, il manifestante che stava tentando di scagliare un estintore su un carabiniere, rimasto intrappolato sulla jeep. Feci alcune foto di Ettore e di alcuni suoi vicini mentre i rumori di scontri e vetrine rotte arrivavano dalla piazza. Avevo finito di fotografare in quella zona e dovevo recarmi poco lontano, in piazza delle Americhe, proprio a ridosso della zona chiusa, cuore del G8. Gli scontri erano violenti e a un certo punto scattò la caccia ai fotografi e ai cineoperatori che tentavano di mettersi al riparo o stavano vicino alle forze dell’ordine. Molti colleghi furono rapinati dalle attrezzature, alcuni riuscirono a difendersi con non poche botte e danni alle attrezzature. Io viaggiavo leggero, avevo una borsa di tela militare, nulla che facesse pensare a una borsa fotografica. Al collo avevo una Leica che tenevo seminascosta da una sciarpa, la Nikon digitale con cui avevo fatto le foto a Ettore e ai suoi vicini era nella borsa. Andavo spedito cercando di evitare di incrociare gruppi di facinorosi che prima si esaltavano davanti ai fotografi e cineoperatori che li riprendevano a distanza, dopo, per i colleghi che si avvicinavo troppo, botte e rapina erano assicurate.  Improvvisamente tre ragazzi, tutti in nero, due parlavano italiano e l’altro inglese, con un chiaro accento tedesco, mi circondarono. Vogliono la macchina che ho al collo e la borsa. Comincia una concitata trattativa, dico loro che non ero lì per fotografare gli scontri ma non sentono ragione. A quel punto chiedo loro se sono manifestanti per una causa o rapinatori? Perché se sono rapinatori, dico loro, faccio prima a consegnargli il portafogli. Un momento d’impasse, si guardano, non sanno cosa fare. Il tedesco urla camera, camera, a quel punto dico agli italiani “allora siete rapinatori”, uno dei due italiani mi dice che sono combattenti contro il sistema, a quel punto un autoblindo della Polizia ci passa accanto, e nel timore di essere loro l’obbiettivo dell’autoblindo, si allontano correndo. Poco dopo arrivò la notizia dell’uccisione di Carlo Giuliani. Non avevo più voglia di fare quel servizio, sapevo che fino a quel momento mi era andata bene, non sapevo come avrei potuto reagire a un altro tentativo di rapina, perché di rapina si trattava così come le tante che subirono molti colleghi. Tornai a Milano, chiamai il giornale e dissi loro che non avevo fatto il servizio, del resto, con tutto quello che era accaduto non sarebbe mancato loro cosa mettere in pagina. Le storie e le immagini di quelle ore fecero il giro del mondo, i fatti della Diaz, di Piazza Alimonda, vent’anni dopo continuano ad avere narrazioni diverse, di parte, senza un briciolo di obbiettività.

In queste ore si possono leggere molti commenti e ricostruzioni su quei fatti, in televisione un documentario tenta una ricostruzione, in tanti illustri commentatori raccontano le loro versione, in molti tentano di spiegare le ragioni di un fallimento. Sì perché di fallimento dobbiamo parlare. Fallì il governo nell’organizzazione del servizio di Pubblica sicurezza, fallirono le organizzazioni sindacali, fallirono le associazioni No global, i mezzi di comunicazione, le forze di Polizia, anche io, tornai senza foto, gli unici che raggiunsero il loro scopo furono i Black Bloc, un’orda di barbari arrivati da tutta Europa con un solo obbiettivo, mettere a ferro e fuoco la città. 

Beppe Grillo, il penultimo rivoluzionario cubano.

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Il garante del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo esprime il suo sostegno al governo di Cuba e alla rivoluzione castrista pubblicando sul suo blog una lettera pro Havana di Frei Betto, teologo e politico brasiliano, in cui difende la rivoluzione castrista che assicura tre fondamentali diritti umani: cibo, salute e istruzione. Vi state chiedendo che ne è della libertà, del diritto fondamentale, il primo e indispensabile diritto senza il quale gli altri sono solo concessioni? Non è contemplato e non ne fa mistero Frei Betto, così come tanti, tantissimi intellettuali e importanti personaggi della cultura della seconda metà del Ventesimo secolo.

Ma per comprendere la vicenda, facciamo un passo indietro. 

Per noi baby boomer, cresciuti durante gli anni di piombo, con il poster di Che Guevara in camera e il proclama Patria o morte sulle magliette e le bandiere sventolate durante le occupazioni studentesche, il regime di Fidel Castro ha rappresentato l’isola felice del socialismo. Cuba era la realizzazione dell’eguaglianza sociale e politica, il luogo dove la dignità umana e la giustizia erano la plastica testimonianza di un’alternativa al modello delle sgangherate democrazie occidentali, basate sul consumismo, la crescita del Pil e le classi sociali.  E ancora prima di tutto ciò c’era l’innamoramento per un ideale di rivoluzione romantica, incarnata da un personaggio da romanzo, bello come un divo di Hollywood e capace di parlare alle masse con parole semplici e dirette: Ernesto Guevara, il rivoluzionario, guerrigliero, scrittore, politico e medico argentino, divenuto un’icona per milioni di studenti e aspiranti rivoluzionari.

Ero nella pancia di mia madre durante la fallita invasione della Baia dei Porci, tentata da uno sparuto gruppo di esuli cubani, finanziati dalla CIA, e sicuramente non camminavo ancora quando Nikita Krusciov, per reazione, inviò una serie di missili che dovevano essere installati sull’isola caraibica. I missili non arrivarono mai ma il mondo arrivò a un tanto così dall’olocausto nucleare. Non sapremo mai se Kennedy sarebbe stato davvero disposto ad affondare le navi russe arrivate con il carico nucleare da installare in quello che gli americani consideravano il cortile di casa e nel dubbio, forse, anche il presidente sovietico Krusciov preferì desistere. Da allora migliaia di libri, centinai di convegni, interminabili dibattiti – complice la guerra fredda e la divisione del mondo in blocchi contrapposti – ci hanno instillato l’immagine di una società cubana felice della loro dignitosa povertà, di un popolo indomito che non si è piegato al modello consumistico e libertario americano che aveva trasformato l’isola cubana, governata da Batista, in un grade Casinò e in un esotico bordello a cielo aperto. 

Come dicevo, non ero ancora nato quando tutto ciò ha avuto inizio, ed ero scolaretto alle elementari quando il mito vivente, passato alla storia come il simbolo delle lotte per la libertà e la giustizia sociale, Ernesto Che Guevara, stanco, affamato e stremato, finiva i suoi giorni, tradito dai contadini che era venuto a liberare e nel tentativo di esportare la rivoluzione, in una sperduta località tra le montagne boliviane. 

In milioni, studenti e rivoluzionari sognatori, abbiamo usato la nostra libertà per manifestare e sostenere un regime che non contemplava proprio la libertà tra i suoi diritti fondamentali e per decenni ci siamo recati sull’isola per manifestare il nostro appoggio alla causa castrista assieme all’apprezzamento per il suo rum, i suoi sigari e le sue donne, divenuti i maggiori prodotti di esportazione.

Sono stato alcune volte a Cuba, per lavoro e per turismo. L’isola felice del socialismo e delle abolizioni delle classi sociali tutto mi è sembrato che felice. La curiosità per come vivevamo noi europei, per i nostri prodotti, per la libertà che avevamo di andare dove volevamo, per tanti cubani erano motivi di curiose domande e talvolta aspri dibattiti su quanto effettivamente eravamo liberi. In alcuni casi avevano ragione: un operaio o un contadino europeo difficilmente poteva permettersi di viaggiare liberamente, le condizioni economiche di milioni di europei, con salari appena sufficienti alla sopravvivenza, per gli attivisti cubani erano la conferma che vivevamo in uno stato d’immaginaria libertà. In fondo loro vivevano meglio: non aspiravano a un’economia di mercato, capace solo di produrre schiavi del consumismo, loro avevano la musica, l’allegria, l’idea di una rivoluzione che li aveva liberati e un regime che assicurava una casa, cibo e istruzione per tutti. Prima di ripartire, spesso ci chiedevano di barattare i nostri jeans o le nostre logore scarpe da ginnastica con qualche bottiglia di pessimo rum o con una scatola di sigari, puro habano, trafugati dalle fabbriche di stato. Lasciando l’isola, ogni volta, mi chiedevo da che parte stava la ragione: erano più liberi i cubani o noi europei? Se la felicità è fatta anche di un paio di logore scarpe da ginnastica e un vecchio jeans, in fondo non doveva essere così terribile vivere a Cuba, o no?

Grillo, dall’altra villa in Sardegna perché quella di Marina di Bibbona l’ha messa in affitto a 12.500 Euro settimana – magari c’è qualcuno che vuole respirare l’aria dell’elevato – esprime solidarietà al regime cubano. Una volta tanto Grillo è coerente. Il leader massimo pentastellato non fa mistero delle simpatie per il regime cinese, di cui, probabilmente, apprezza il ruolo e la figura di Xi Jinping, che incarna tutto il potere e la forza della Cina: è capo politico e militare e padre padrone del paese più popoloso al mondo, e per Grillo che si sente anche lui un po’ padre, un po’ padrone e tanto leader, il modello cinese o quello castrista sembrano interessarlo particolarmente.

Beppe Grillo è il penultimo rivoluzionario cubano perché ci sarà sempre qualcuno, andando in vacanza sull’isola, che s’innamorerà della rivoluzione cubana e dei suoi simboli e i più fortunati potranno ballare in compagnia la Salsa cubana sorseggiando un’elegante Margarita o, più prosaicamente, un Cuba Libre, mentre i meno fortunati potranno accontentarsi dei libri del Che.

Probabilmente moriremo cinesi, come ha scritto Rampini, ma cino-grillino è un’onta che non so se potremo perdonarci.

Tra est e ovest, i diritti umani negati

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La Corte Suprema americana si è pronunciata giovedì a favore di due società Usa accusate di complicità nella schiavitù infantile nelle coltivazioni di cacao della Costa d’Avorio. La decisione è stata l’ultima di una serie di sentenze che impongono limiti rigorosi alle cause intentate in tribunale federale per violazioni dei diritti umani all’estero.

A Hong Kong una massiccia operazione di polizia, con 500 agenti, ha arrestato diversi giornalisti del quotidiano Apple Daily, dell’editore pro-democrazia Jimmy Lay, già arrestato ad aprile scorso e condannato a 14 mesi di detenzione. Gli agenti di polizia hanno fatto irruzione nella redazione del giornale provocatoriamente pro-democrazia; i computer dei giornalisti controllati; arrestati i migliori editori; congelati i conti aziendali; e ha avvertito i lettori di non ripubblicare e condividere alcuni dei suoi articoli online.

Negli Stati Uniti un gruppo di sei cittadini del Mali ha avuto la possibilità di ricorrere a un tribunale per affermare di essere stati vittime della tratta in schiavitù da bambini. Hanno fatto causa a Nestlé USA e Cargill, affermando che le aziende avevano aiutato e tratto profitto dalla pratica del lavoro minorile forzato. Il caso si è concluso con un nulla di fatto, il giudice Clarence Thomas, scrivendo per una maggioranza di otto membri, ha affermato che le attività delle società negli Stati Uniti non erano sufficientemente legate agli abusi asseriti.

La Cina, in maniera sempre più esplicita afferma che quanto avviene a Hong Kong riguarda esclusivamente le autorità locali e nessuno deve intromettersi negli affari interni del Paese. Un rapporto di Amnesty International del 2020ha denunciato come la Cina ha continuato la sua inesorabile persecuzione dei difensori dei diritti umani e degli attivisti, nonostante le disposizioni costituzionali e i suoi impegni e obblighi internazionali. Durante tutto l’anno, sono stati sistematicamente oggetto di molestie, intimidazioni, sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie e lunghi periodi di reclusione.

Libertà di stampa e diritti umani sono le due facce della stessa medaglia, la medaglia della democrazia. Da che parte pende la nostra visione di democrazia?  

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Le foto del genocidio abbellite e colorate

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Vice, il gruppo media internazionale costretto a scusarsi e a rimuovere le foto ritoccate delle vittime di Pol Pot

In queste ore in Cambogia sta facendo molto discutere il caso della testata internazionale Vice che ha pubblicato una serie di foto delle vittime del genocidio dei Khmer rossi colorati e alcune apparentemente modificate per aggiungere sorrisi ai loro volti.

La Cambogia ha condannato le immagini dell’artista irlandese Matt Loughrey che ha modificato le foto che ritraggono i prigionieri che sono stati schedati con immagini in bianco e nero, scattate nella famigerata prigione di Tuol Sleng, dove migliaia di persone sono state torturate e interrogate prima di essere inviate ai campi di sterminio di Choeung Ek.

Youk Chhang, il direttore del Centro di documentazione della Cambogia , che conserva un vasto archivio di materiale relativo ai Khmer rossi, lui stesso è un sopravvissuto, ha detto che il suo cuore batteva all’impazzata quando ha visto le versioni ritoccate delle immagini. “Come puoi trasformare l’inferno in felicità?” si è domandato. “È stata una grave ingiustizia alterare un simile pezzo di storia, che è ancora una storia vivente”.

Il Ministero della Cultura e delle Belle Arti ritiene che le immagini modificate “compromettano seriamente la dignità delle vittime” e ha chiesto che vengano rimosse dalla pubblicazione, minacciando azioni legali.

Vice ha detto che in effetti qualcosa nei suoi meccanismi di controllo dei suoi standard editoriali non ha funzionato: “L’articolo includeva fotografie di vittime dei Khmer Rossi che Loughrey ha manipolato oltre la colorazione …

Ci rammarichiamo dell’errore e indagheremo sulle cause che hanno consentito la pubblicazione delle foto senza il necessario controllo “.

Nell’intervista con Vice, ora rimossa, Loughrey ha detto di aver iniziato a lavorare sulle fotografie di Tuol Sleng quando è stato contattato da qualcuno in Cambogia che voleva che tre fotografie – inclusa una foto d’identità scattata all’interno della prigione – venissero restaurare.

Ha poi lavorato su ulteriori immagini delle vittime, aggiungendo che più persone si erano fatte avanti con simili richieste.

Alla domanda sui sorrisi che apparivano sui volti di alcune vittime, Loughrey ha detto che ciò potrebbe essere dovuto al nervosismo e che le donne sembravano sorridere più spesso degli uomini, ma non ha detto di aver aggiunto sorrisi ad alcune delle immagini restaurate.

Tuttavia, sui social media, le persone hanno pubblicato quelle che sembravano essere le immagini originali insieme alle versioni modificate, chiedendosi perché le espressioni degli individui fossero cambiate.

Il Ministero della Cultura e delle Belle Arti ha dichiarato che il progetto di Loughrey, che ha utilizzato le foto delle vittime del genocidio abbellite e colorate, ha anche violato i diritti del museo in quanto legittimo proprietario e custode delle immagini. “Esortiamo i ricercatori, gli artisti e il pubblico a non manipolare alcuna fonte storica per rispettare le vittime”.

Si stima che circa 1,7 milioni di persone, un quarto della popolazione della Cambogia all’epoca, furono uccise tra il 1975 e il 1979 sotto il regime dei Khmer rossi.

Il numero dei morti non è mai stato calcolato con precisione, e le stime dal milione e mezzo ai tre milioni di morti tra il 1975 ed il 1978, pari a circa un quarto della popolazione cambogiana. Questo episodio è spesso citato come esempio della presunta brutalità del Comunismo, tuttavia ci si dimentica di ricordare che furono proprio i comunisti ad essere le vittime del genocidio cambogiano . Pol Pot , infatti, si preoccupò di eliminare tutti coloro che erano stati formati, sia negli studi che nell’arte militare, da parte del Partito Comunista Vietnamita, che aveva fornito loro una solida formazione marxista-leninista.

Le fake news fanno parte ormai del nostro quotidiano tanto da costringere i maggiori sociali e i governi a trattare seriamente l’argomento ma soprattutto a istituire strumenti e meccanismi per contrastarle. Dopo le News adesso tocca anche alle immagini? Photoshop ci ha abituati a incredibili effetti e a sorprendenti montaggi, dove il fantastico diventa verosimile e l’impossibile possibile ma raramente si è cercato di spacciarle per originali e, nei pochi casi in cui si è tentato di farlo sono sempre stati miseramente smascherati.

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