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Diario Siciliano n.1

9 gennaio 2024, a cavallo tra nord e sud.

Dopo quarant’anni torno a essere un residente siciliano, una scelta dettata da ragioni fiscali, per il fisco la prima casa deve coincidere con la residenza. Non che mi dispiaccia, anzi, Catania in questo momento offre condizioni migliori dell’inquinata e carissima Milano. Nonostante molte classifiche releghino il capoluogo etneo tra le ultime posizioni nella classifica di vivibilità – 92° su 107 – per me la mia città natale oggi offre condizioni di vivibilità che, evidentemente, le classifiche non prendono in considerazione, due su tutte: qualità dell’aria, nevrosi collettiva. Sarebbero molte di più le ragioni ma su queste non c’è storia, Catania batte Milano due a zero. 

Sulla qualità dell’aria non c’è molto da spiegare. Milano da qualche decennio le ha provate tutte contro le polveri sottile, il killer silenzioso che ogni anno causa migliaia di tumori, sembra un mostro invisibile duro da sconfiggere e il risultato è sotto gli occhi di tutti. Divieti di circolazione e rottamazione delle vecchie auto sono stati, per ora, solo un regalo per le case automobilistiche e le zone a traffico limitato un ottimo strumento di monetizzazione per le affamate casse comunali. I propositi della giunta milanese parlano di ulteriori azioni per il contenimento del traffico automobilistico privato, di rincari dei trasporti, dei parcheggi e del ticket “Area C” che finiranno per trasformare il capoluogo lombardo in una città svizzera ma senza le retribuzioni elvetiche.

Discorso a parte merita la nevrosi da efficientismo, uno continuo stato di agitazione che i milanesi vivono costantemente. Si va sempre di fretta. Dopo quarant’anni fatico ancora adesso a individuare le origini della frenesia che pervade i milanesi anche se, devo confessare, in talune stagioni ho scoperto di esserne stato contagiato.

La città vive in continuo movimento, l’operosità dei vecchi milanesi ha contaminato anche i nuovi milanesi, anche quelli appena arrivati che ben presto e, forse anche meglio dei locali, hanno adottato la dottrina il tempo è denaro e per i milanesi” I danè a fan daná, ma avei minga fan tribülà” (I soldi fanno dannare, ma non averne è peggio).

La competitività internazionale e la veloce trasformazione che Milano ha subito negli ultimi vent’anni hanno trasformato anche il milanese: più competitivo, più business oriented, più rivolto al mondo esterno. La Milano del Signor G, quella delle case di ringhiera, dei balordi del bar del Giambellino o di Vincenzina di Jannacci sono solo un ricordo. C’è di buono che il milanese è consapevole di questa nevrosi positiva, sa di essersi un po’ abbrutito e trova il tempo per ironizzarci su e…. taac!  anche per farne un business. 

In questo diario racconterò del mio graduale ritorno alle origini, del modo di riuscire a vivere a cavallo di due città, di due mentalità, di due realtà. I temi e gli spunti non mancano, su entrambi i versanti ma privilegerò sicuramente quello siciliano, e non solo per mantenere fede al nome di questa rubrica ma perché ritengo che la Sicilia in questi ultimi anni abbia fatto qualche piccolo passo in avanti, qualche sussulto della società civile c’è, dei giovani, almeno quelli che hanno scelto di rimanere, sento la voglia di riscatto. Il bilancio non è certo rosa e fiori, anzi. 

La politica siciliana è stata un campione di malcostume, corruzione, malaffare e purtroppo riesce a perpetuarsi ad ogni elezione, qualunque sia il colore politico ma forse i siciliani, pochi per adesso, stanno imparando a fare anche senza la politica, senza dover ricorrere agli appoggi di amici e conoscenti, senza la raccomandazione del politico di turno, consapevoli di essere portatori di diritti e cittadini di Seria A come il resto degli italiani.

L’altro Matteo

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Scrivendo del Matteo del Papete, per equità e par condicio – e anche perché me l’ho ha ordinato il medico, e non è uno scherzo – non potevo non pensare che anche l’altro Matteo meritava che si scrivessero un paio di cosine sul suo conto. Ma mentre iniziavo a scrivere, qualcuno, scrivendo meglio e molto di quello che avrei fatto io, ha sintetizzato in queste ottime righe quello che in tanti pensano.

E allora perché spendere altre energie? Quest’articolo, di cui sottoscrivo ogni singola parola, è stato scritto da Daniela Ranieri su Il Fatto quotidiano del 30 gennaio 2021.

RENZI: È ORA DI CHIEDERSI PER CHI LAVORA DAVVERO

Questa sciagura che affligge l’Italia dal 2014 produce oggi i suoi effetti più esiziali. Il calibro dell’uomo è tale che non ha trovato momento migliore per esercitare la sua volontà di prepotenza dell’apice di una pandemia che ha provato il Paese allo stremo. Aveva solo l’arma di far cadere il governo, distruggere l’alleanza che lo reggeva, disarcionare il presidente del Consiglio che ha dieci volte il suo consenso, e l’ha usata. Ora, incattivito dal sapersi odiato dalla maggioranza degli italiani da cui pretendeva di essere adorato (è la definizione di personalità narcisistica secondo Lasch: una formazione psichica in cui “l’amore rifiutato ritorna a sé sotto forma di odio”), dopo aver prodotto il disastro se ne va bel bello in Arabia Saudita a curare i suoi affari economici e ad adulare un regime efferato e liberticida; come un bambino che dopo aver distrutto un giocattolo si dirige verso un’altra distrazione senza alcun senso di colpa e responsabilità. Il video che testimonia della sua gita è sconcertante. Nonostante sembri leggerla da un gobbo o recitarla a memoria, la prolusione in inglese grottesco è un’agghiacciante mistura di piaggeria e banalità. “È un grande piacere e onore essere qui con il grande principe Mohammad bin Salman. Per me è un privilegio poter parlare con te di Rinascimento Credo che l’Arabia Saudita possa essere il luogo per un nuovo Rinascimento futuro”. E come no. Nascesse oggi a Riyad, l’omosessuale Michelangelo sarebbe arrestato, frustato, internato in clinica psichiatrica, amputato e ammazzato con esecuzione pubblica. È di qualche rilevanza che il grande principe Mohammad bin Salman, chiamato con deferenza Vostra Altezza, sia ritenuto dall’Onu il mandante dell’omicidio del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi, fatto a pezzi nel 2018 nel consolato saudita di Istanbul. Ora viene magnificato come un principe rinascimentale da colui che ha definito Conte un “vulnus per la democrazia”. (A proposito: chissà se dopo l’ospitata ancora se lo litigano l’Onu e la Nato). Habitué dei regimi del Golfo, dove da tempo piazza discorsi (anzi: speech) lautamente remunerati (a lasciare interdetti è che nel mondo ci sia chi è disposto a pagare per starlo a sentire, quando la maggioranza degli italiani pagherebbe per non sentirlo più), si dice geloso del “costo del lavoro” locale, ignorando o fregandosene del fatto che in Arabia Saudita esistono forme di lavoro neo-schiavistico e milioni di immigrati lavorano alla crescita economica del regime in condizioni disumane. Le donne, che lui si vanta di “valorizzare” in patria (togliendo loro la parola, facendole dimettere a comando), non hanno alcun diritto e sono sottoposte alla tutela maschile, e se si ribellano alla legge vengono torturate. (Ma forse si riferiva al costo del suo lavoro: 80 mila euro sauditi l’anno). Il discorso prosegue con le banalità che ci si aspetta da lui, già sentite nel documentario kitsch di cui fu autore: dopo la peste viene il Rinascimento, Firenze piena di soldi, “tanti soldi, così buoni finanziamenti, per creare un buon cittadino con un grande investimento nell’istruzione, nell’intelligenza umana” (traduzione di Fabio Chiusi). Baggianate da marketing, con spreco di quella “bellezza” da depliant turistico in albergo, che prima scriveva nei suoi “libri” e ora va a dire nelle petromonarchie più sordide del mondo. Lì dove partono le bombe per lo Yemen lui vede un nuovo Rinascimento. Lo sberluccichio dei soldi lo acceca, gli erode la eventuale moralità residua. Da Riyad muove pedine in Italia per bocca delle vestali del suo partito-setta: spediamo Conte in Europa e mettiamo Gentiloni a capo del governo, anzi Sassoli, anzi Di Maio, anzi mettiamo Draghi all’economia e promettiamogli il Quirinale. Torna per le consultazioni con aereo privato pagato dal fondo saudita nel cui board siede, si burla della massima Istituzione della Repubblica producendosi in un comizio in cui con voce stridula dice il contrario di quello che intanto fa trapelare dalle agenzie. Pare in preda a un delirio

superomistico, uno che non ha più niente da perdere. Nel nostro ordinamento non esiste il reato di apologia di regimi dittatoriali e sanguinari. Ci si può recare in cambio di soldi a rendere omaggio ai loro padroni. Anche il suo idolo Tony Blair, quello che si era inventato armi di distruzione di massa in Iraq, e Obama lavorano come conferenzieri; ma nessuno di loro è ancora attivo in politica, mentre lui è senatore e membro della commissione Difesa: o nell’universo parallelo degli affari si è ritirato dalla politica nel 2016? Come diceva lui quand’era al governo e si sentiva Nerone: poche chiacchiere. Per chi lavora questo personaggio? Perseguendo quali interessi? La domanda è lecita, visto che le risposte “per gli italiani” e “nell’interesse esclusivo della Nazione” sono a questo punto le meno probabili.

Un Matteo vale l’altro?

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Un caro amico mi fa notare come mi occupi solo e sempre dei misfatti di Salvini & Co. senza mai indignarmi, invece, per lo spettacolo che il governo, appena dimesso, ha dato di sé.

Tradizionalmente, tutti i governi che si sono succeduti, da Mani pulite in avanti, chi più o chi meno, hanno fatto rimpiangere, e non poche volte, quei governi che magari duravano solo pochi mesi o quelli che ti fanno ancora dire “si stava meglio quando si stava peggio”. Sì, è un giudizio sommario e un tantino superficiale, me ne rendo conto ma oggi la politica, che vive di immediato e facile consenso e insegue gli umori dell’elettorato, cambia idea e programmi in base ai sondaggi e per alcune forze politiche è diventato il loro modo naturale di fare politica e il giudizio non può che essere altrettanto affrettato e superficiale. I trend e i topic dei social dettano il programma politico, e l’obiettivo è rispondere agli umori dell’elettore per governare per un’intera legislatura. I governi di prima non riesco a valutarli, ero troppo giovane per le noiose tribune elettorali, gli unici momenti in cui i politici facevano finta di parlare alla gente ma per quanto male abbiano fatto, hanno comunque ricostruito un Paese, da agricolo a quinta economia mondiale. 

Oggi ci alterniamo da un Matteo all’altro, da un veto a una crisi balneare, senza capirne davvero le ragioni. Certo, non mancano i motivi per indignarsi per il triste teatrino del Conte due, che era figlio, guarda caso, del Conte uno, eletto da quelli del Vaffa day e di Roma ladrona, il cui capo è proprio quel Matteo balneare, del Papete, che poi decise, tra un ghiacciolo e un bagno, che il suo socio di governo doveva andare a casa, prescindendo anche dalle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica. Quell’altro Matteo – quello dello “stai sereno” -, invece,  con la stessa serafica sicumera invoca il futuro dei suoi figli – cuore di papà – e l’eventualità che questi possano un domani chiedergli conto delle sue azioni sul Recovery fund e su come è stato utilizzato, e per questo vuole mandare a casa Conte ma non la sua maggioranza, che potrebbero sostenere solo a determinate condizioni. Pronti a riappoggiare un altro Conte: il Conte ter. Non chiedetemi di più, faccio fatica a capire.

Anche il primo Matteo tira in ballo spesso la progenie, come quando, andando dai magistrati per il caso della nave Diciotti, disse che non sapeva cosa rispondere alla figlia che gli chiedeva perché andava davanti ai magistrati, lui che aveva fatto solo il suo dovere, aveva difeso i confini della patria. La minaccia era costituita da un centinaio di sfiniti naufraghi.

Ma perché, secondo il mio amico, è il Matteo del Papete che critico di più? 

La coerenza e l’onestà intellettuale, oltre alla storia politica che rappresenta, sono per me la cartina di tornasole di chi mi deve rappresentare, ed è difficile che possa sentirmi rappresentato da uno che per anni ha letteralmente sputato addosso a una parte del Paese, rei di essere fannulloni e parassiti, di essere ladroni, come la capitale in cui facilmente e velocemente si sono insediati. Di quella Roma ladrona hanno presto imparato linguaggio, modi e costumi, riuscendo a essere anche più bravi. C’è voluto poco, molto poco per calarsi perfettamente nei rituali della politica romana, e c’è voluto anche meno per cominciare a rubare, esattamente come quelli che li avevano preceduti. Nei giorni di Mani pulite, nel disperato tentativo di salvare il salvabile – poco – Craxi tentò di spiegare ai magistrati che non c’era nessuno senza peccato che poteva scagliare la prima pietra. Tutta la storia repubblicana del dopoguerra si poggia su un unico caposaldo: contrastare il blocco sovietico. E i comunisti erano aiutati da Mosca, e loro dovevano arrangiarsi come potevano, perché la politica costa e non sempre era possibile finanziare il contrasto antisovietico legalmente, e allora le tangenti erano la forma non legale ma accettata per salvare la libertà, la democrazia, per cui molti di loro avevano combattuto. Rubare per il partito aveva le sue attenuanti. 

La Lega Nord di Umberto Bossi capisce subito che rubare è anche forma di lotta politica: lottare contro quella Repubblica dalla quale affrancarsi, della quale non rispetta la bandiera – da usare come carta igienica – sbeffeggia la nazionale di calcio e il vilipendio sono doveri rivoluzionari. Non sono i soli, per la verità, in tutte le formazioni politiche troviamo dei “rivoluzionari” che a modo loro conduco la loro personale rivoluzione, ma i leghisti hanno una marcia in più, ce l’hanno nel DNA.

Per anni la secessione è stato il sogno nel cassetto, il vessillo della libertà delle genti padane, da sventolare ai raduni in canottiera tra Pontida e la sorgente del Po. Quando poi non c’era da bruciare la bandiera italiana, a Venezia, dove si concludeva il cammino di celtizzazione del nord e dove si andava a versare l’ampollina raccolta alle sorgenti del Po. Raccontare di quella Lega oggi sarebbe troppo semplice, in fondo erano anche coloriti e non destavano preoccupazione, erano un fenomeno regionale. Riposti i forconi e le bandiere verdi per l’anno dopo, smaltite salamelle e birra, tutti tornavano alle loro valli, alle attività, perché in fondo va bene fare baldoria ma il lavoro è il lavoro e i dané sono i dané. 

Per qualche voto in più, la nuova Lega, riesce a rinnegare anni di antimeridionalismo, improvvisamente napoletani e siciliani non puzzano più, hanno smesso di incitare l’Etna. Adesso è arrivato il momento di prima i siciliani, i calabresi, i sardi, i campani, i pugliesi. Incredibilmente riescono a darla anche a bere a chi ha come valori la difesa dell’identità nazionale, la bandiera, l’onore, la parola data. La Lega del dopo Bossi comincia a trovarsi d’accordo con le frange estreme della destra, comincia a flirtare con i neofascisti, trova modelli estranei alla cultura di questo Paese, come il respingimento in mare di profughi e immigrati, facendo diventare loro i nuovi terroni, spingendo un po’ più a sud il confine del sacro Po per salvare l’identità nazionale. Nel corso di una sola stagione elettorale, il Matteo del Papete riesce a cambiare idea più volte sulla permanenza in Europa, l’Euro diventa un sasso al piede per l’economia del Paese tanto da ipotizzare l’emissione di una valuta parallela. L’autarchia economica salviniana rifiuta i soldi che arrivano dall’Eu – di cui facciamo parte, quindi soldi anche nostri – a tassi premianti o a fondo perduto per ricorrere al mercato, alle condizioni di mercato. A Bruxelles riesce a stringere alleanze con i maggiori leader dei partiti populisti e sovranisti, diventando lui stesso vittima del sovranismo dei suoi alleati. Nessun aiuto da parte di Orban, dell’olandese Geert Wilders. 

Tra un bagno e uno spritz è artefice del nuovo soggetto politico sovranista europeo, con l’obiettivo dichiarato del gruppo, sotto il motto ‘i popoli rialzano la testa’, di sovvertire gli equilibri all’interno del Parlamento Europeo.

Tra un rosario ostentato e una mascherina commemorativa, o una divisa sfoggiata, il Matteo del Papete ha una ricetta per tutto. In poche settimane riesce a battersi per i No mask e per i commercianti, il lockdown è un colpo di stato mascherato ma poi  chiede misure più rigide perché “non è così che un governo serio combatte una pandemia” e in fine invita alla disobbedienza civile. Percorre l’Italia su e giù sembra la vera attività dell’ex titolare del ministero degli Interni, dove, in dieci mesi d’incarico, l’hanno visto appena 11 volte. Ha più tempo per farsi ritrarre con sindaci e amministratori locali, come la sindaca di San Germano Vercellese, Michela Rosetta, un modello di amministratore locale a marchio Lega, campione di iniziative contro gli immigrati, a cui sottraeva gli aiuti alimentari che girava a chi non ne aveva diritto o necessità.

Nelle ore in cui il Presidente Biden si insediava alla Casa bianca, al Parlamento europeo si votava un emendamento del gruppo socialista di dura e ferma condanna all’assalto del Campidoglio da parte dei sostenitori di Trump e di “difesa della democrazia, dei diritti umani e dello Stato di diritto a livello globale.”

Un testo di una evidenza e una solarità che dovrebbe essere persino banale formulare in un consesso democratico, nel 2021.

E invece, che ci crediate o no, Lega (astenuta) e Fratelli d’Italia (addirittura contro) sono riusciti nell’impresa di non votarla, e quindi non condannare nemmeno questo scempio. 

Ma se la politica nazionale e internazionale appassionano poco, credo che non possiamo fare a meno di ragionare come il Matteo del Papete e il suo governatore lombardo hanno trattato la salute dei lombardi.

Da Formigoni in avanti, uno dei migliori apparati di sanità pubblica europea è stato sistematicamente demolito, a tutto vantaggio dei privati e durante questa pandemia ha mostrato tutti i suoi problemi:

– l’acquisto saltato di 4 milioni di mascherine dopo essersi rivolti a una ditta che non le produceva; 

– la delibera XI / 2906 con cui si stipavano persone positive al Covid nelle case di riposo per anziani; 

– l’Ospedale “Fiera” Milano progettato con 600 posti e realizzato con 53; 

– l’acquisto di spazi pubblicitari sui giornali per esaltare il modello sanitario regionale, nel momento in cui la sola Lombardia deteneva il 9,5% delle vittime mondiali e il 52% di quelle nazionali (28.224 vite salvate. Sanità privata insieme alla sanità pubblica);

– l’ex assessore Giulio Gallera che, dopo mesi e mesi di pandemia, era convinto che con un indice Rt pari a 0,5 ci volessero “due persone infette nello stesso momento per contagiarne una”; 

– l’ex assessore Giulio Gallera che, con una serie di scatti su Instagram, senza rendersene conto, rendeva noto di aver violato due regole del Dpcm (divieto di uscire dal Comune per fare sport e divieto di fare sport in gruppo); 

– una fornitura di camici affidata, senza alcuna gara, al cognato del Presidente Fontana;

– la Regione Lombardia che riteneva inutili i test sierologici ma che, in caso di risultato positivo degli stessi, chiedeva ai cittadini di pagarsi da soli i tamponi;

– i tamponi all’aeroporto di Malpensa avviati il 20 agosto, a estate ormai conclusa; 

– il tweet con cui la Regione Lombardia comunicava che per i turisti “è necessario effettuare il tampone solo se si fermano almeno per 4 giorni in Lombardia”;

– l’assenza, a dicembre inoltrato, dei vaccini antinfluenzali persino per i pazienti a rischio (over 65 con patologie pregresse);

– l’ex assessore Giulio Gallera che, nel commentare il terzultimo posto della Lombardia nella somministrazione delle dosi di vaccino anti-Covid, dichiarava che “è agghiacciante che alcune Regioni abbiano fatto la corsa al vaccino per dimostrare di essere più brave di chissà chi”.

– la nuova assessora Letizia Moratti che, per non far rimpiangere le gaffes del suo predecessore Gallera, propone di consegnare i vaccini anti-Covid tenendo conto del Pil dei territori.

Speravamo, appunto, di aver visto tutto. E invece, ciliegina sulla torta, adesso si scopre che la Regione Lombardia ha costretto alla zona rossa 10 milioni di persone per aver sommato, per errore, il numero dei guariti al numero dei positivi. 

Un ultimo dato: all’anagrafe calano i Matteo. Un dato che dovrebbe far riflettere i due Mattei nazionali.

Auguri, ne abbiamo proprio bisogno.

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Un Paese ostaggio di una classe politica arruffona e improvvisata.

Quasi scontato dire tanto rumore per nulla ma c’era davvero qualcuno che credeva alle minacce di Renzi e al suo sparuto numero di ministri? A parte il resoconto di qualche cronista politico e a fantasiosi retroscena – ormai l’unica forma autorevole del giornalismo italiano – nessuno ha mai creduto alla fine del governo Conte, neanche Renzi e il suo entourage. Quel giorno, se dovesse arrivare prematuramente rispetto alla naturale conclusione della legislatura, per molti parlamentari potrebbe rappresentare la conclusione della carriera parlamentare e allora, statene certi, abbaiare alla luna, per adesso, è l’unico lusso che si possono permettere.

Ma il Paese può permettersi questa classe politica?

Il racconto di come è andato l’incontro tra il presidente Conte e il drappello renziano sembra scritto da Age & Scarpelli, autori delle più esilaranti commedie italiane. Come in una scenetta di Totò e Peppino, a un certo punto del vertice, Conte ha sbottato: “Ma chi ha detto che volevamo fare un emendamento alla legge di Bilancio?”. E la Boschi risponde: “Voi, all’articolo 184 della legge di Bilancio”. Conte ribatte: impossibile. La Bellanova chiede: “Ma ci prendete in giro?”. A quel punto, anche Riccardo Fraccaro e Roberto Gualteri, rispettivamente sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e ministro dell’Economia e delle Finanze, avrebbero fatto notare la cosa a Conte.

“Ma Gualtieri l’ha letto il Recovery Plan? “, durante l’incontro, durato oltre due ore, con la delegazione di Italia Viva, è trapelato che neanche il ministro dell’Economia ha letto il piano nel dettaglio. 

Insomma, ci sarebbe da ridere a crepapelle se fosse che qui c’è in ballo il piano di aiuto economico più importante della storia repubblicana italiana. 

Intanto ogni giorno si apprende di un nuovo bonus, dopo bici, monopattini e vacanze, in queste ore si è aggiunto quello sull’arredamento e sui rubinetti dell’acqua – non è una battuta di spirito –. E poi ci lamentiamo perché in Europa ci guardano con sospetto quando si parla di aiuti economici e sforamento del patto di stabilità. 

Purtroppo, a voler cercare qualcosa di buono nell’opposizione, non c’è da stare tanto allegri. Salvini ha annunciato che passare il Natale con i clochard, la Meloni ha dato idea di come affronterebbe l’emergenza Covid e la necessità di far andare avanti l’economia: apertura dei centri commerciali per fascia di età. Insomma dalle 9 alle 10 i trentenni, dopo i quarantenni, nel pomeriggio i nonni.

Siamo un Paese fantasioso, pieno d’immaginazione, di splendide idee e una grande dose di fortuna e non ci resta che sperare sulla buona stella che tante altre volte ci ha salvato dalla sciagurata tendenza a farci del male da soli.

Chiaro come in una giornata d’agosto su un ghiacciaio

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Ci sono cose nella vita che uno non riesce a spiegarsi, altre, invece, sono chiare come in una giornata d’agosto su un ghiacciaio. “Papà, mi regali la moto?” È la domanda che molti genitori temono. Anche se entrambi, marito e moglie, un po’ per necessità un po’ per passione, tutti i giorni saltano in sella alla moto e allo scoter per andare in ufficio, la moto per i figli è qualcosa di destabilizzante. Speri sempre che questa richiesta non arrivi mai o il più tardi possibile, almeno quando hanno compiuto la maggior età e confidi di poterli distrarre dalle due con le quattro ruote. La prima volta l’ha chiesta non appena compiuto i quattordici anni, la sua compagnetta delle elementari aveva fatto da apripista. Prendiamo tempo. Spieghiamo che bisogna studiare e prendere la patente e, come da tradizione, né papà né mamma hanno fatto la patente in autoscuola, “se sei capace preparati e fai gli esami da esterna”.

Per il momento la cosa sembra rimandata. “Papà, si forse è meglio fare gli esami direttamente per il 125, nel frattempo comincio a esercitarmi con i quiz”. Bene, quindi respiriamo per un po’. “sai papà, preferisco attendere e prendere direttamente la patente per il 125 perché preferisco un 125 invece del cinquantino”. Non era quello che intendevo, ma va bene, qualche mese di respiro. Il giorno del sedicesimo compleanno arriva e, come solo una ragazzina di sedici anni sa essere, determinata e ruffiana, ecco pronti e scaricati dal web tutti i moduli e i bollettini da pagare per il rilascio del foglio rosa. Tra una lezione a distanza di italiano e matematica, un occhio al libro dei quiz: “papà cosa vuol dire questo segnale?” ma sei a scuola, devi seguire le lezioni, “si ma sta interrogando e io sono stata già interrogata, ho la media dell’otto”. Tento di allontanare il più possibile il giorno dell’esame, ma sono l’unico in famiglia e remare controcorrente alla fine ci si sfianca. Ok Marghe, fai pure la patente direttamente per il 125 ma comincerai con un cinquantino, non appena avrai dimestichezza passerai al 125, Ok? “Perfetto, papà, sì penso sia una buona idea anche perché voglio prima provare una moto da cross e poi vorrei una stradale?

Una moto da cross? Un tuffo al cuore, una fitta mi stringe lo stomaco. Marghe, io pensavo tipo una vespa o qualche altro scooter… qualcosa per una ragazzina “papà, a me non piacciono gli scooter, voglio una moto.” Non potevo rimproverarle nulla, era chiaro come in una giornata di agosto su un ghiacciaio, non potevo tentare di convincerla, sarebbe stato contro natura. E dimmi, hai qualche idea di che moto da cross vorresti? “Sì, non so come si chiama il modello ma ti faccio vedere le foto che ho scaricato da internet, queste sono proprio fighe, ti giro le foto su WhatsApp.” In rapida successione la clessidra scarica le foto sul mio cellulare, uno, due, tre, otto, dieci, dodici… Apro la prima. Un groppo alla gola mi toglie il fiato, il battito accelera, i timpani si trasformano in due sensibilissimi fonendoscopi, riesco a sentire ogni singolo battito. Scorro velocemente le foto, non so se sperare che si tratti di una scelta casuale o magari è una tra tante. No! Non ci sono dubbi, la scelta è chiara e trasparente, come in una giornata d’agosto su un ghiacciaio, mia figlia vuole la stessa moto che quarant’anni prima avevo sognato e guidato, in prestito da un amico: Caballero Fantic Motor 50cc Regolarità Casa. E adesso eccomi qua, come un ragazzino a cercare sul web come sistemare il carburatore, come cambiare la frizione, che gomme montare… come quarant’anni fa.

Natale in Libia

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Che fine hanno fatto i 18 pescatori di Mazzara del Vallo?

Natale in Libia non è il titolo del cinepanettone di quest’anno ma quello che potrebbe accadere ai pescatori sequestrati in Libia e ancora nelle celle del regime di Haftar. Se, paradossalmente, si potesse scegliere quando imbattersi in una disgrazia, i 18 pescatori siciliani, sequestrati dal generale Haftar, hanno scelto proprio il momento peggiore. Certo che non esiste il momento migliore per farsi sequestrare ma il destino a volte rende ancora più complicato quello che è già complicato in partenza. Da oltre tre mesi, 90 lunghi giorni e altrettante interminabili notti, le famiglie dei 18 marittimi di Mazara del Vallo attendono di poter riabbracciare i proprio cari, di riaverli a casa, di tornare alla normalità. Da giorni una tenda staziona davanti a Montecitorio, i famigliari di alcuni di loro, con la loro silenziosa presenza, ricordano al governo la loro tragedia e che andranno via solo quando potranno riabbracciare i loro uomini. 

La storia attorno al loro sequestro sta assumendo i contorni di una faccenda molto più ingarbugliata e non di facile lettura per un Paese ma, soprattutto, per un Governo distratto da problemi più pressanti ed evidentemente meno coinvolgenti di quelli che riguardano le famiglie di 18 lavoratori, sequestrati in acque internazionali assieme alle loro imbarcazioni. La pandemia, con i suoi DPCM, i litigi su come spendere il fiume di denaro del Recovey Fund, i problemi ideologici sul Mes, un ministro degli Esteri più intendo a gestire il doppio mandato e a fronteggiare i mal di pancia di un Movimento che si sta sciogliendo al pallido sole dell’Estate di San Martino, non lasciano ben sperare sui tempi del ritorno a casa dei 18 marinai.

Il generale Haftar

Per dirla tutta, neanche tra i banchi dell’opposizione pare esserci molta attenzione sulla sorte dei malcapitati pescatori di Mazara.

Giorgia Meloni, la più attiva quando c’è da denunciare inadempienze del governo o molto sollecita nel dispensare consigli su come bloccare gli sbarchi, con un massiccio blocco navale, in queste ore è molto occupata a denunciare l’uso improprio della scorta del premier che, colpevolmente, secondo l’opposizione, è intervenuta a proteggere la compagna del Presidente del Consiglio dall’insistenza degli inviati di Striscia. La Meloni, in un video direttamente dall’aula di Montecitorio, denuncia una questione di Stato di diritto. Per molto meno la scorta di Salvini impedì il lavoro di altri giornalisti durante le esibizioni al Papete dell’ex ministro degli Interni. Sul diritto di quelle 18 famiglie a riabbracciare i loro congiunti non una parola. Molto fredda anche la partecipazione dei social e delle Ong che in questi anni si sono mobilitati per i diritti degli immigrati. In fondo è lo stesso mare e lo stesso comune nemico. 

In queste ultime ore un evento, non collegato direttamente alla faccenda dei marinai trattenuti in Libia ma riconducibile ai delicati rapporti di forza e di potere nell’area, ci dà la misura di come il nostro Paese spesso soffra in politica estera un senso di minus habens. Ricordate il caso dei Marò e del disastro della nostra politica estera che ci coprì di ridicolo?

Tornando all’evento di queste ore, l’Egitto ha annunciato che non ci sono elementi sufficienti per continuare le indagini per individuare gli assassini di Giulio Reggeni e, pertanto, non collaborerà con la procura romana. Un bel ceffone per la nostra diplomazia. L’Egitto è uno dei fiancheggiatori dell’ex generale di Gheddafi, Khalifa Haftar, oltre a una altra mezza dozzina di paesi e, fra questi, pensate un po’, ci sono anche i francesi. I cugini d’oltralpe non hanno mai fatto mistero della voglia di scalzarci dalla Libia, i contratti dell’Eni sono nel mirino dei francesi da sempre, e la spallata al regime di Gheddafi non era certo un sostegno alla Primavera araba ma una veloce scorciatoia per mettere le mani sul petrolio libico.

La diplomazia italiana, da sempre e forse giustamente, ha preferito pagare per il rilascio dei suoi cittadini. In queste settimane i funzionari della Farnesina invitano alla cautela e al silenzio, per non compromettere le trattative. Chiedere il silenzio per non compromettere le trattative potrebbe avere senso quando ancora non si conosce l’identità dei rapitori, dove tengono i prigionieri e se sono ancora in vita. Ma qui conosciamo nomi, cognomi e indirizzo dei carcerieri e dove sono trattenuti i nostri connazionali, illegalmente, da un governo non riconosciuto da molte delle istituzioni internazionali. Dopo una prima richiesta dei libici, fatta circolare informalmente, circa uno scambio dei marinai siciliani con quattro scafisti libici, arrestati in Sicilia cinque anni fa, condannati a 30 anni ciascuno in primo e in secondo grado a Catania per la morte in mare di 49 migranti nel 2015, il generale Haftar deve essersi reso conto che un governo sovrano e legittimo non fa ostaggi da scambiare. Ecco allora il cambio di strategia, incriminare i pescatori per traffico di stupefacenti.

Petrolio, gamberi rossi e diplomazia è l’intrigata sceneggiatura che vede potagonisti una dozzina di paesi coinvolti in una grande partita di Risiko, dove si giocano spregiudicati assetti strategici ed economici di un enorme area che va dalla Tunisia alle coste di Grecia e Turchia, e gli interessi degli italiani sono in balia della sorte e di qualche oscuro consigliere diplomatico. 

Al generale Haftar la sorte dei 18 marinai della Medinea e della Antartide deve essergli sembrata un ottimo poker d’assi, senza mettere in conto che qualcuno potrebbe avere in mano una scala reale.

Haftar sa che una mossa sbagliata potrebbe procurargli le ire di Russia ed Egitto e che potrebbero scaricarlo da un momento all’altro, mentre la Francia potrebbe cercare di ingraziarsi i cugini italiani dopo anni di contrapposizione in Libia ma per il resto c’è il fondato rischio che i marinai di Mazzara del Vallo rischiano di passare il Natale forzatamente distanziati dalle loro famiglie al suono dei muezzin del generale Haftar.

La speranza di Flora

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Storie di Covid.

A Milano cade la prima neve di questo inverno che si annuncia pieno di insidie. Vorremmo poter già essere nell’estate del 2021 ed esserci messi alle spalle il Covid e le sue triste storie.

Storie, come questa che sto per raccontarvi, dalla tragica comparsa del Covid, ne abbiamo udite tante in questi mesi. La pandemia ci ha obbligato ad accettare qualcosa che è umanamente impossibile accettare, immaginate abituarcisi: perdere un congiunto senza riuscire a dargli l’ultimo saluto, l’ultima carezza. Non era un congiunto Flora, la mia vicina di casa che mia figlia aveva da subito chiamato nonna, in mancanze di quelle naturali. Non stava molto bene, da anni combatteva con uno di quei mali che a volte ti porti dietro per anni, altre volte non lasciano scampo. Flora ci aveva convissuto per più di un decennio, e tutto lasciava presagire che sarebbe andata avanti così per un po’. La sua routine degli ultimi anni era fatta di frequenti visite in ospedale per i periodici controlli, le analisi, le terapie che man mano cambiavano con il mutare del male. L’ospedale, fortunatamente, non dista molto da dove viviamo, tanto da poter essere accompagnata da suo marito, ottantenne, ma in discreta salute, anche lui segnato dal male da anni, ma in grado di guidare. Circa un mese fa Flora deve recarsi in ospedale per i controlli e un piccolo intervento di biopsia. Per poter accedere al reparto è sottoposta al tampone: negativa. Si procede con il ricovero e le cure previste. La degenza si protrae un paio di settimane, un po’ più del previsto. Le notizie sullo stato di avanzamento del tumore non sono buone ma nessuno si aspettava diversamente. Anche Flora era consapevole e, nonostante tutto, teneva duro. L’inizio della fine comincia con una telefonata. Poche ore dopo essere stata dimessa dall’ospedale, le comunicano che è risultata positiva al tampone effettuato poco prima di essere dimessa. Un esito, evidentemente, che non hanno atteso prima di lasciarla tornare a casa.Al telefono, oltre all’esito del tampone, indicano le procedure da seguire per il monitoraggio e le cautele verso l’unico convivente, l’anziano marito ottantenne.Flora è asintomatica, nessun segno di febbre o difficoltà respiratoria: sembra un miracolo. Ma dura poco. Tre giorni dopo comincia a respirare male, con molta fatica. Riesce ancora a camminare e a salire sull’ambulanza che la preleva dalla sua abitazione. Il marito la saluta da lontano, non può nemmeno stringerle la mano, i sanitari, vestiti come palombari, la sorreggono e invitano il marito a stare a distanza. Si salutano sbrigativamente, con gli occhi, come a dire ci vediamo dopo.Dall’ospedale le notizie arrivano con il contagocce: situazione stabile. I figli per giorni aspettano le poche comunicazioni che arrivano dal reparto, ogni tanto anche Flora riesce a chiamare suo marito, giusto un saluto, non riesce a parlare a lungo e la telefonata dura poco.I medici non si sbilanciano, aggiornano i figli sullo stato delle cure che non sembrano rispondere adeguatamente. Le telefonate si diradano, Flora è stazionaria ma non migliora. I medici avvertono i figli che in caso di peggioramento non la intuberanno ma cominceranno con la morfina e altri calmati. Il quadro clinico complessivo non lascia margine di miglioramenti. Flora era andata in ospedale, fiduciosa di poter ancora una volta strappare qualche anno, qualche mese a quell’invisibile nemico con cui aveva imparato a convivere e che tutto sommato aveva imparato a domare per così tanti anni ma non aveva fatto i conti con la trappola mortale che nel frattempo era diventato l’ospedale. Flora è morta questa notte nell’ospedale che tante altre volte le aveva dato una speranza in più ma questa volta l’ha tradita.

L’inferno in terra

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Moria Camp, il più grande campo profughi che l’Europa non vuol vedere.

Lesbos, estremo confine orientale delle isole greche, di fronte alla costa turca.

Nessuno è mai tornato dall’inferno o dal purgatorio per raccontare com’è laggiù, abbiamo sempre fatto delle supposizioni, e queste assomigliano molto a questo luogo di sofferenza e senza futuro.

L’isola di Lesbo, dopo il 2016, anno di accordo tra Bruxelles e Ankara, da porta d’ingresso in Europa, si è trasformata in gabbia, dove i richiedenti asilo rimangono bloccati per anni, in un’attesa senza fine.

Il campo di Moira, un’ex base militare greca, allestito per 3200 profughi, oggi sono 13000.

Le condizioni inumane segnano indelebilmente chi è passato per questo campo. Un volontario, sbarcato qui quattro anni prima, è tornato dalla Germania per dare il suo aiuto, “chi più di me può conoscere la sofferenza di questo luogo”. 

Interminabili code per i pasti, ambulatori sovraffollati, servizi igienici insufficienti e spazi vitali ristrettissimi sono spesso la scintilla che accende la violenza tra le diverse etnie che vivono nel campo e scontri con la polizia.

Raccontare questo luogo potrebbe essere un esercizio troppo ovvio, scontato. Siamo abituati, purtroppo, a immagini che descrivono le condizioni dei campi profughi, sparsi un po’ ovunque in questo inizio secolo. Indugiare con la macchina fotografica sul viso di chi scappa da una guerra, di chi è in difficolta, mi ha sempre messo a disagio, forse per questo ho seguito pochi conflitti. 

Ma quello che sta accadendo a poche miglia dalle spiagge greche, affollate di bagnanti di tutta Europa è l’angolo buio della coscienza europea e va raccontato. L’ho fatto in maniera diversa, non ho ritratto visi emaciati e sguardi persi nel vuoto, bambini mal vestiti che fissano la camera come rapiti dall’alieno che sta dietro la macchina fotografica.

Ho rivolto l’obiettivo altrove, nella discarica di giubbotti salvagente indossati per arrivare sull’isola. Sono una montagna, impossibile dire quanti, qualcuno ha detto cinquantamila, chi addirittura parla di centomila. Sono tanti, troppi e forse questo è l’unico dato per capire la dimensione di questa tragedia.

Scarpe, bottiglie, vestiti, borse, biberon, e anche una protesi, confusi in un unico ammasso, in un’unica montagna di plastica informe. Tutti indizi di un’umanità in fuga, in corsa verso un destino incerto che si lascia dietro quello che non serve più. 

Cittadino di serie B

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La difficile integrazione dei nuovi italiani

di Abi Kobe Zar

A fine luglio mio fratello mi dice che ha trovato una macchina da comprare, e che ha bisogno che porti il contratto di lavoro e l’ultima mia busta paga per fargli da garante. Gli hanno chiesto solo quello, ma io, previdente, mi porto dietro il passaporto (italiano) e codice fiscale. 

L’agente della concessionaria prende tutto e mi dice la finanziaria ha bisogno del codice fiscale plastificato e della tessera sanitaria. Questo non era stato detto prima. 

All’indomani dicono a mio fratello che la finanziaria non accetta il mio passaporto, ma vuole obbligatoriamente la carta d’identità. Per me che giro il mondo la carta d’identità è, a tutti gli effetti, carta straccia. Ho un passaporto con ben due visti lavorativi per USA e che mi fa arrivare ovunque nel mondo, ma per la finanziaria di Modena, che deve prestare 6 mila euro a mio fratello, quel passaporto non vale nulla in confronto alla carta d’identità. Capite? 

Sono contrariato, ma porto pazienza e mi reco in comune. Mi rimbalzano tra loro e i carabinieri trattandomi da idiota (ed ho già raccontato di questo) e ci metto 3 giorni per farla al costo di 22,5 euro. 

Ricordo che la carta d’identità contiene l’indirizzo. 

Dalla concessionaria arriva la richiesta che, oltre a tutti i documenti, dobbiamo portare un certificato di residenza a testa con marca da bollo da 16 euro. L’ennesima cosa che salta fuori all’ultimo. 

A me sembra una palese presa per il c#lo, e dico a mio fratello che se si fosse chiamato Mario Rossi a quest’ora non eravamo qui a dannarci con tutti questi documenti. 

Facciamo pure quelli e la settimana dopo veniamo chiamati per andare a firmare. Sembra quasi tutto fatto ma c’è un piccolo problema, di nuovo. 

Mio fratello ha 24 anni, ed è in Italia da quando ne ha 6. Parla italiano, impreca in italiano e mangia italiano. Lavora e paga le tasse allo stato italiano.

Sono 4 anni e mezzo che ha fatto la richiesta di cittadinanza e la sta ancora aspettando. 

QUATTRO ANNI E MEZZO. 

In famiglia è l’unico straniero. 

La finanziaria esige il suo passaporto perché è prassi per i cittadini stranieri. Lo è ora dopo un mese che trattano la pratica? 

Poi il mio italiano non valeva, ma ora vogliono il suo ghanese? 

Lui il passaporto non ce l’ha perché è scaduto, e non essendo mai uscito dall’Italia, non ha mai avuto la necessità di rinnovarlo, soprattutto perché sa che a breve (si spera), potrà fare quello italiano. 

Niente, la finanziaria non chiude la pratica finché lui non porta il passaporto scaduto, e voglio ricordare che loro hanno tutti i documenti di riconoscimento esistenti.

Permesso di soggiorno, tessera sanitaria, carta d’identità, certificato di residenza e codice fiscale. 

Hanno tutto, e dopo più di un mese di avanti e indietro e di disagi, all’ultimo tirano fuori che il documento irrinunciabile è un passaporto scaduto senza alcuna validità legale. 

Io ero talmente esasperato che ho detto a mio fratello di cercarsi un’altra macchina da un’altra concessionaria. In due giorni ne ha trovato una uguale, gli ho dato i soldi di tasca mia, e il giorno dopo aveva l’autovettura. 

Ora, quando dite che la riforma della cittadinanza è inutile, che non bisogna farla e che tanto la legge attuale funziona benissimo per chi state parlando esattamente? Per voi che vi chiamate Mario Rossi e Anna Verdi? O siete portavoce di chi vive questi disagi quotidianamente?

Bisogna essere egoisti, ed anche un po’ str#nzi, per impedire con così tanta forza un diritto altrui che a voi non tocca minimamente. 

Per più di un milione di persone averla farebbe una differenza che non immaginate, ma a voi cosa verrebbe a mancare esattamente? Che pericolo vi crea? Che cosa vi toglie? 

Non ci vogliono soldi, né risorse. Non sarà una distrazione rispetto ad altre leggi o riforme.

Ci sono cittadini a cui lo Stato ha stampato in faccia il bollino di Serie B, e questa è un’enorme ed insensata ingiustizia.

Disconnettersi

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Avete mai avuto la tentazione di disconnettervi? Anche solo per un giorno o per qualche ora? 

Vi siete chiesti se siete in grado, o se ne avete la forza?  Disconnettersi da tutto e da tutti? Lasciare che le notizie non ci inseguano più, che i social siano all’oscuro su quello che stiamo pensando, che stiamo facendo? Lasciare muto WhatsApp, non rivolgere nessun cinguettio a Twitter e mandare Instagram in bianco e tenere le foto solo per i nostri ricordi?

Probabilmente sì, almeno lo spero. Ma quali potrebbero essere gli effetti, e perché ci siamo ridotti così?

Dal rapporto ‘Net Children Go Mobile’ realizzato dall’Università Cattolica di Milano emerge che il 79% dei ragazzi tra 9 e 16 anni dice di sentirsi in dovere di essere sempre raggiungibile, il 52% di avere un forte bisogno di controllare sempre il cellulare e il 43% si sente a disagio perché non può controllare il cellulare in caso di mancanza di campo o di batteria scarica.

Anche se questi dati fanno riferimento a una fascia ben precisa della popolazione, quella adolescenziale, non è molto diversa la situazione tra gli adulti. La necessità di sentirsi sempre connessi, raggiungibili è virale. Neanche quando si va in vacanza, momento deputato al relax e al distacco dalle attività che ci provocano stress, riusciamo a fare a meno della connessione. Una delle prime cose che chiediamo all’Hotel dove soggiorneremo è il WiFi.  

Ma perché ci siamo ridotti così?

Oggi il modello vigente è quello della produttività alla velocità della luce. La fibra è la cartina di tornasole, la sua diffusione indica l’indice di modernità di un paese. Tutto deve essere veloce, connesso e condiviso. Fuori da questi canoni sembra non poter esserci sviluppo, modernità, civiltà. 

La connessione diventa il fulcro di tutte le possibili interazioni e comunicazioni con la nostra comunità. La relazione con il cellulare si sostituisce a quelle reali, il virtuale diventa il luogo delle relazioni verosimili. Si ha paura di essere soli senza la connessione per poi accorgersi che la vera solitudine è rappresentata dall’incapacità di intrattenere una vera relazione umana basata sul contatto, sull’interazione e sulla sana comunicazione a due. Connessi con tutti, in relazione con nessuno.